Incubi e lutti di una generazione

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Il corridoio di legno è l’Holzgang, il dormitorio degli allievi più giovani ospitati dall’Institut auf dem Taubenberg di Berlino, un collegio che raccoglie ragazzi delle provenienze più varie. Lì, su un parquet scricchiolante passano a volte le notturne spedizioni punitive contro l’escluso di turno, da lì si esce di nascosto per incontrare una ragazza, lì nascono le bande di adolescenti, le inclinazioni, le implacabili gerarchie. È in quel semichiuso contenitore di destini che comincia la vicenda raccontata nel primo romanzo di Giorgio Manacorda (Voland, pp. 168, euro 13). 
Molti anni dopo, l’io narrante vi ritorna per concludere un’indagine riguardante Andrea, un tempo il ragazzo più fragile e appartato, torturato dall’asma e forse ancor più dalla sorda rivalità  col fratello maggiore, Silvestro. Quando il narratore giunge a Berlino, ritrova intatto il vecchio, austero Institut e con triste emozione rivede Lotti, la donna che ha condiviso con Andrea una parte della sua vita e che ora s’interroga dolorosamente sul suo destino ignoto. Tutto però è già  accaduto: tramite le rievocazioni del narratore, ma soprattutto grazie alle lettere che Andrea ha spedito dall’Italia, veniamo a conoscenza del suo avventuroso ritorno in patria, della sua cattura da parte dei terroristi che si battono per la rivoluzione e della sua fuga alla ricerca del fratello, introvabile e al centro di voci enigmatiche che lo vogliono addirittura passato dalle file dei rivoltosi a quelle dell’odiata Milizia reazionaria che opprime il paese, ormai dominato da una Giunta militare.
È questa solo la parte iniziale della trama, sufficiente però a introdurci in una storia di fantapolitica, che ipotizza come realmente concretizzatisi i complotti di estrema destra che hanno punteggiato la storia italiana degli ultimi decenni. E non c’è dubbio che Manacorda abbia scritto una parabola sul potere, dando corpo a una visione, a una lucida versione alternativa della realtà  che pure è prerogativa della letteratura. Manacorda ha imboccato e portato alle sue conseguenze una delle prospettive da cui fortunatamente la Storia ha ritratto il suo passo, ma così facendo ha potuto riflettere sull’estremismo in maniera non astratta, e anzi coinvolgente, inscrivendo ogni evento politico nelle emozioni e nelle catastrofi personali dei suoi eroi negativi. 
Da poeta e critico letterario, nato nel 1941, Manacorda ha attraversato gli anni delle cattive utopie combattenti e dei feroci pretesti neofascisti e ha compreso come essi siano stati un portato del nichilismo novecentesco e dell’avanguardismo culturale, la malattia estremistica di giovani in lotta contro dei padri inattingibili, velleitariamente contro o a favore di una Tradizione maiuscola e intimidatrice, ma virtuale. Per questo, Il corridoio di legno è un romanzo che deve aver aiutato Manacorda a proseguire la propria riflessione con altri mezzi, quelli dell’immaginazione e dell’intreccio poliziesco, ma anche con una lingua densa e precisa, solo parente di quella a lui usuale della poesia lirica e della critica letteraria. Costruire una controstoria, così, con i suoi incubi e i suoi lutti, gli ha consentito di radicalizzare gli opposti, svelarne le reversibilità  e la comune condanna a consumarsi nel momento stesso della loro paradossale vittoria.
Tuttavia, c’è poco di più intimo di questo romanzo apparentemente politico. Manacorda ha contrabbandato per generale il destino di una generazione, e forse di una tentazione o di una deriva che conosce bene. Il romanzo si apre e si chiude su un reclusorio, perché all’Institut berlinese dove tutto comincia farà  da sigla finale il ricercato eremo dell’Isola Bisentina, che sorge nel mezzo del lago di Bolsena. Entrambi sono universi che concentrano e portano all’assurdo le proiezioni narrative dell’autore, i suoi fantasmi autobiografici, dando ulteriore spessore a quelli che un pubblico più élitario ha potuto trovare nelle sue poesie. Il protagonista Andrea è compreso fra quei due luoghi concentrazionari come fra due parentesi: se è vero che «è più facile morire per le masse che viverci insieme», in lui domina un bisogno imperioso di impermeabilità  sovrana e derelitta; la comunità , la solidarietà , persino l’aria, ciò che circola, insomma, che ricatta, nutre e delude, viene rifiutato con una violenza solo di poco minore, in fondo, rispetto a quella del fratello Silvestro. Lo sradicato Andrea e il suo gelido doppio dostoevskijano, abbacinato dalla «politica pura» e dunque da una seriale sequenza di segni e di azioni svincolati da ogni etica, vivranno l’atto finale del dramma con definitiva chiaroveggenza, scoprendosi uguali e contrari, capaci solo di annichilirsi vicendevolmente come due atomi di materia e antimateria. 
Così, pur nella notevole tenuta narrativa di questo romanzo, resta fortissimo il sospetto che in Manacorda predomini fatalmente una mente di tipo poetico: tutto quanto avverrà  è già  contenuto nella premessa, la storia è solo ripetizione, il trauma già  scricchiolava sulle assi di un vecchio corridoio di legno. Al tempo stesso, nel suo tessuto prosastico Manacorda si è dato la possibilità  di sciogliere le presenze che ingombrano la sua immaginazione in un contesto più ampio, e dunque distaccarsene in parte, fino a riavvicinare corpi e amori, vecchi incanti e possibili tenerezze.


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