by Editore | 6 Febbraio 2012 10:32
Sono ormai noti a tutti noi i dati preoccupanti sulla disoccupazione in Italia, per non parlare di quella giovanile che addirittura raggiunge il 30 per cento. Sarà pure una semplice coincidenza, ma nel nostro Paese la percentuale dei disoccupati risulta essere la stessa degli immigrati presenti e regolarmente impiegati nelle fabbriche. Non sarebbe ora di «studiare» se esiste una correlazione tra questi due dati e che, forse, da noi il problema non è tanto la «mancanza del lavoro» quanto l’assenza della «cultura al lavoro»?
Mario Taliani
Caro Taliani,
I dati a cui lei si riferisce valgono per quasi tutti i Paesi dell’Europa occidentale. L’immigrazione dall’Africa e dall’Asia cominciò a crescere negli anni Settanta e fu il risultato di fattori comuni. Il fenomeno rifletteva in primo luogo i progressi realizzati nei decenni precedenti. La ricostruzione del dopoguerra, l’edilizia popolare, la riforma agraria e lo Stato sociale avevano elevato il livello di vita di quello che si chiamava allora il proletariato. Le campagne si svuotavano e le università si riempivano. I figli avevano maggiori aspettative dei padri, non volevano ricadere all’indietro accettando lavori umili e pesanti.
In secondo luogo l’immigrazione rispondeva a quel bisogno di flessibilità che il mercato del lavoro aveva progressivamente perduto. Gli immigrati avevano meno esigenze, si accontentavano di salari più modesti, erano disponibili per i lavori stagionali e più facilmente licenziabili. È nato così un nuovo ceto sociale che ha meno diritti del cittadino. Non è bello, ma i sacrifici degli immigrati sono serviti a pagare la promozione sociale degli indigeni. Così è accaduto, e continua ad accadere negli Stati Uniti.
Nel quadro di questo fenomeno europeo, le Università e lo Stato italiano hanno alcune responsabilità . Quando nuovi ceti sociali cominciarono a chiedere maggiore istruzione, sarebbe stato utile introdurre l’esame d’ingresso nelle università e rafforzare contemporaneamente le scuole di formazione professionale. Temo che sia stato fatto esattamente il contrario. L’istruzione tecnica è stata lungamente trascurata, le università hanno spalancato le loro porte a chiunque avesse terminato la scuola media superiore, gli Atenei sono stati liberi di offrire corsi di studio che non avevano sbocchi professionali. Oggi abbiamo dottori in psicologia, sociologia, scienze della comunicazione che fanno fatica a trovare un lavoro. Ma abbiamo un numero d’ingegneri insufficiente e, a giudicare dalle nostre difficoltà di ogni giorno, manchiamo di elettricisti, idraulici, falegnami, periti tecnici e industriali, operai specializzati. All’origine della nostra disoccupazione non vi è soltanto la crisi del 2008. Vi è anche la negligenza con cui i governi e le università , con qualche lodevole eccezione, hanno trattato i problemi dell’istruzione tecnica e professionale.
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