Immagini in cerca della realtà .

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BERLINO.  Sembra che l’Orso d’oro al film di Paolo e Vittorio Taviani abbia provocato dei malumori tra la stampa tedesca delusa dalla mancata vittoria del regista nazionale Christian Petzold che per Barbara (film molto intenso) ha avuto l’Orso d’argento alla migliore regia. Qualcuno ha scomodato l’anagrafe, dicendo che il presidente della giuria Mike Leigh coi suoi sessantanove anni ha premiato un cinema d’autore europeo «vecchia maniera» invece di puntare sugli autori più giovani, come accade al festival di Cannes, ma francamente «vecchio cinema europeo» appare assai di più un film osanatissimo sulla Croisette come The Artist.

Cesare deve morire, col suo bianco e nero fotografato splendidamente da Simone Zampagni, in sala il prossimo 2 marzo distribuito dalla Sacher di Nanni Moretti, è un film di libertà  assoluta, radicale nelle sue scelte di regia e di punto di vista ma soprattutto nella modo in cui interroga la materia stessa del suo narrare. Siamo nel carcere romano di Rebibbia, tra detenuti che scontano pene altissime, e anche senza fine, per associazione camorristica o omicidio, coi quali il regista Fabio Cavalli lavora nel suo laboratorio teatrale. Il testo prescelto è Giulio Cesare di Shakespeare. I Taviani filmano per mesi la preparazione, dai provini per la scelta degli attori, alla lettura del testo, le prove in una sala angusta del carcere visto che il teatro non è ancora agibile, sino al debutto per il quale le immagini diventano a colori.
Dentro/fuori: è su questa geometria dello spazio che costruiscono il film, a partire dal rapporto tra l’attore e il personaggio, Giulio Cesare, Bruto, Cassio, Antonio … e perciò il testo e le sue possibili interpretazioni. È lì che si concentra tutto, passato e presente, il vissuto prima del carcere e i conflitti al suo interno rimangono nel fuoricampo senza però essere celate. Si rappresentano infatti tra le parole di Skakespeare, nelle prove quando affiorano gli scontri e le tensioni, nella lettura solitaria in cella dove ritornano le ferite del passato, l’angoscia di un futuro senza orizzonte , la solitudine, le scoperte di una diversa consapevolezza. La Roma antica sono i corridoi in cui rincorrono le voci, le congiure che non hanno tempo, i bisbiglii di Bruto e di Cassio contro il futuro imperatore, i pensieri che si confondono nella notte, il corpo incessante del carcere. Sappiamo chi sono e le affinità  che sentono con i loro personaggi Bruto, Salvatore Strano che ora è fuori dal carcere e continua a lavorare da attore, o Cassio, Cosimo Rega, Cesare, Giovanni Arcurii, e in questo corpo a corpo è come se anche Shakespeare trovasse una sua nuova vitalità .
È vero che i premi della Berlinale (in giuria insieme a Mike Leigh, Charlotte Gainsbourg, Ashgar Farhadi, Jack Gyllenhaal, Barbara Sukowa, Anton Corbijn, Franà§ois Ozon, Boualem Sansal) hanno prediletto un cinema «politico», ma era un po’ questa la chiave dichiarata della selezione, e non solo del concorso, in cui quasi tutti i film si confrontavano con soggetti importanti dell’attualità . Il punto però è il senso del cinema «politico» oggi, e anche qui Cesare deve morire è un film dichiaratamente politico, per il modo in cui i Taviani interrogano le loro immagini rispetto a quanto raccontano. Non è un film «sul» carcere, non in senso programmatico, e proprio per questo sa mostrarcene dall’interno con pudore e intensità  il respiro profondo di dolore e di violenza. La cifra politica del film rimanda alle decisioni cinematografiche non al tema, all’indipendenza di sguardo che si prendono senza preoccuparsi del mercato, delle ricette produttive e di quant’altro condiziona il nostro cinema e non solo.
In questa direzione andava il film di Edwin, Postcards from the zoo, purtroppo escluso a favore di Just the Wind di Bence Flieghauf (premio speciale della giuria), o Tabu di Miguel Gomes, premio Alfred Bauer, dove uno sguardo strabico, e magnifico, smaschera colonialismi e post, l’esotico dell’Africa di ieri e di oggi in un melò noir feroce.
Cosa è un cinema politico insomma negli immaginari contemporanei, con le rivoluzioni che accadono in rete, e «in tempo reale», è una delle domande che la Berlinale 2012 ha provato a lanciare tra i suoi schermi. L’eurocrisi, Fukushima, il G8, i migranti, le primavere arabe, la scommessa però è nel modo, nella ricerca di una chiave, un’invenzione cinematografica. Si può infatti parlare dei migranti, e di come le democrazie occidentali dimentichino verso di loro il diritto, raccontando una storia d’amore come fa Vincent Dieutre nel suo Jaurés. O ritrovare i fili della storia complessa di un paese come Cambogia a partire dal suo cinema, dai registi fiammeggianti degli anni prima di Pol Pot (Le sommeil d’or di David Chou).
Christian Petzold ci riporta agli anni della Ddr, nell’estate del 1980. Barbara, la protagonista che dà  il titolo al film (sorprendente Nina Hoss, icona del regista) è un medico dissidente, ha chiesto di andare a ovest ma la sua domanda è stata rifiutata. Per punirla l’hanno trasferita da Berlino in un piccolo ospedale di campagna. Forse anche per controllarla meglio, per umiliarla con le continue ispezioni in casa, i pedinamenti, frugano nei suoi cassetti e nel suo corpo, ogni sguardo che incrocia il suo è un potenziale delatore, una potenziale accusa. Barbara però non ha rinunciato alla fuga, sta organizzando il passaggio a ovest con l’aiuto del suo uomo, che fa affari con l’est e quindi non ha problemi di movimento. Ma nella sua vita appare Stella, una ragazzina rinchiusa in un campo di lavoro, e poi c’è Andre, il collega medico che la attrae senza sapere se può fidarsi …
Barbara è forse il film in cui il regista tedesco (Jerichow, Yella) più concede alla narratività , e al suo pubblico, ammorbidendo la struttura gelida dei suoi melò contemporanei in una regia (premio giustissimo) di spazi, sguardi, emozioni, gesti. Petzold dice che non voleva fare un film sulla Ddr che fosse il ritratto di una nazione oppressa a cui contrapporre la libertà  dall’altra parte del muro. La sua Ddr somiglia più a un film classico di spionaggio, alla tensione di n thriller, non ci sono assassini o misteri da svelare ma progressivamente siamo catturati da questo clima di oppressione, di ambiguità  e di reciproco sospetto (Petzold cita Hawks di Acque del sud) nel quale l’individuo perde i limiti della sua singolarità . Dove anche fare l’amore sembra impossibile, se non clandestinamente, appartati in un bosco lontano da quegli sguardi terribili o negli hotel di lusso ove tutto è concesso perché si trasfroma in economia.
Petzold ha scritto anche la sceneggiatura, stavolta non con Haroun Farocki, suo maestro e abituale complice negli altri film, dal quale ha assimiliato però la lezione su come rappresentare il controllo. E Barbara, se si toglie il riferimento alla Germania dell’est, è un film sulla logica del controllo. L’espediente storico permette una maggiore identificazione ma nell’angoscia che si diffonde seguendo le passeggiate di Barbara sulla sua bicicletta, e la paura a ogni suono di campanello, spalanca l’abisso di un sentimento comune, qualcosa che riconosciamo sicuramente al di là  di ogni tempo.


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