IL WELFARE DA SALVARE

by Editore | 29 Febbraio 2012 10:23

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In un’intervista al Wall Street Journal, il 23 febbraio, ha detto che quel che si profila in Grecia è un Nuovo Mondo. L’immagine è forte, e singolare, perché di Nuovi Mondi nessuno osa più molto parlare: tanti ne sono stati promessi, e le cose non sono andate bene.
Generalmente quando si annunciano Nuovi Mondi se ne seppelliscono di vecchi, o perché falliti o perché malgovernati. Goethe, ad esempio, era convinto che la Rivoluzione francese non avrebbe spazzato via i monarchi come «vecchie scope», se questi fossero stati veri monarchi. Lo stesso si può dire oggi dell’Europa, che versa in condizioni ancora peggiori di quei re: la corona non l’ha persa; non l’ha mai pienamente avuta. Non esiste un impero europeo che governi il caos. Non esistono partiti europeisti che si battano contro l’impotente potenza dei nazionalismi, letale per l’Unione. Proviamo dunque a vederlo e pensarlo, il Nuovo Mondo proposto non solo a Atene ma a tutti noi.
È un mondo che abolirà  il vecchio regime, e ci libererà  dei sepolcri imbiancati dentro cui giacciono divinità  ancora onorate, ma ormai finite: «All’esterno paiono belli, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni marciume», di ipocrisia e iniquità . Tra questi sepolcri viene additato il Welfare: cioè quel sistema di protezione universale dai rischi della malattia, del lavoro, della vecchiaia, conosciuto in Europa dopo il ‘45. «Lo Stato sociale è morto», annuncia il governatore della Bce, perché perde senso se non copre tutti i cittadini e se il lavoro resta duale: da una parte i giovani costretti alla flessibilità , dall’altra i protetti con salari basati sull’anzianità  e non sulla produttività .
Naturalmente c’è del vero, nella denuncia del sepolcro-idolo. Lo Stato sociale fallisce, a partire dal momento in cui non mantiene più la parola. Ma perché dire che come promessa è morto, gone? Perché nessun accenno al fatto che, essendo un patrimonio essenziale dell’Europa, va riorganizzato, ma non ucciso? Possibile che debba emergere da un certificato di decesso il mirabile nuovo mondo che vedremo dopo austerità  e liberalizzazioni? Il brave new world di Huxley – ricordiamocelo – è una distopia, un’utopia tutta negativa.
In realtà  sono decenni che lo Stato sociale è sotto attacco, quasi fosse un lusso ormai insano. Più fondamentalmente è sotto attacco lo Stato: considerato esso stesso un rischio, da politici ed economisti abituati a nutrirsi di dottrine antistataliste. Su quel che accadrà  di qui al Nuovo Mondo non ci si sofferma. Parole come povertà , penuria, declino demografico scompaiono, sostituite dal pulito, clinico eufemismo: «Ci sarà  una contrazione». Torna in auge perfino la famosa certezza esibita dalla Thatcher: «Non c’è alternativa». Anche quest’affermazione è leggermente stupefacente, perché l’univoca ideologia inglese e americana degli anni ‘80 è finita infelicemente. Il mercato-padrone, che da solo si equilibra, s’è infranto nel 2007-2008. Oppure no?
Quel che conta è sapere cosa muore, e cosa si mette nel vuoto che resta. Muore quel che gli europei appresero nella crisi degli anni ‘30, e in due guerre. La prima cosa che scoprirono fu l’unione europea, il No alle rovinose sovranità  assolute degli Stati-nazione. La seconda fu il Welfare, il No alla povertà  che aveva colpito le genti negli anni ‘30, gettandole nelle dittature e nelle guerre. Si tratta di due polizze d’assicurazione, offerte ai popoli per far fronte ai sinistri del passato, e tra esse c’è un nesso. Basti ricordare che il principale ideatore del Welfare, William Beveridge, fu anche militante dell’Europa federale.
Come si tiene insieme una società ? Come si scongiurano le guerre, civili o tra Stati? La duplice risposta europea (Unione e Welfare) fu data per evitare che la questione della povertà  divenisse di nuovo mortifera. Lo Stato sociale che Beveridge propose nel 1942 su richiesta di Churchill fu voluto all’inizio da un liberale e un conservatore. Toccò al Premier laburista Attlee, nel dopoguerra, metterlo in pratica. Come disse Churchill, l’aspirazione era di «proteggere l’individuo dalla culla alla tomba». Secondo Michel Foucault, il Welfare nasce come patto di guerra. Alle persone «che avevano attraversato una crisi economica e sociale gravissima», i governanti dissero in sostanza: «Ora vi chiediamo di farvi uccidere, ma vi promettiamo che, una volta fatto questo, conserverete il posto di lavoro sino alla fine dei vostri giorni» (Foucault, Nascita della biopolitica). Cinque erano i «giganti» che Beveridge riteneva nemici della Ricostruzione postbellica: Bisogno, Malattia, Ignoranza, Squallore, Ozio. Tutti insieme andavano abbattuti. 
Quali sono i giganti contro cui oggi combattiamo, per ricostruirci? A sentire chi ci governa non sono quelli evocati da Beveridge. Non sono il disgregarsi della convivenza civile, la miseria, il crollo della democrazia. Sono la non-attuazione dell’austerità , l’»immediata reazione negativa» dei mercati. Perfino il voto democratico si tramuta in rischio, e infatti si diffida delle elezioni greche di aprile, e forse anche delle italiane. L’unico gigante che impaura è l’ozio, la pigrizia figlia del Welfare. L’essere umano non è guardato con apprensione: è guatato con sospetto, e sul sospetto non si edificano polizze né patti. 
Per la verità  anche Foucault denunciò la «coppia infernale sicurezza sociale-dipendenza», negli anni ‘80. Di fronte a una «domanda infinita», s’ergeva (e andava riconosciuta) la finitudine del Welfare. La sua finitudine, i suoi limiti: non la sua morte. Nato come contrappeso a processi economici selvaggi, come correttivo degli effetti distruttori del mercato sulla società , era assurdo gettarlo via. Altrimenti crescita e benessere dipendevano solo da concorrenza e privatizzazioni: un’ennesima utopia, lo si era visto negli anni ‘30-40. La crisi di oggi ci riporta a quegli anni di presa di coscienza sull’orlo del disastro. È il patto di guerra che stavolta manca, in Europa. È la memoria di quel che escogitarono uomini come Keynes, Beveridge, Roosevelt. È significativo che mentre l’Europa dimentica, l’America tenti – assai timidamente con Obama – di resuscitare Roosevelt e il New Deal. 
Ci sono momenti nella vicenda europea dei debiti sovrani in cui si ha l’impressione, netta, che sulla pelle dei greci si stia compiendo un esperimento neo-liberista, una sorta di regolamento dei conti con Keynes, Beveridge, Roosevelt. Si vuol capire sin dove regge un paese, se impoverito e sfrondato di Stato sociale. È la tesi di Michael Hudson, economista dell’Università  di Missouri a Kansas City: «La crisi greca è usata come esperimento di laboratorio, per vedere fino a che punto la finanza può spingere verso il basso i salari e privatizzare il settore pubblico. È come nutrire sempre meno un cavallo per vedere se sarà  più efficiente, fino a quando le gambe gli si piegano e muore».
Con decenni di ritardo, molti economisti e politici sembrano riesumare l’illusione del 1989, quando Francis Fukuyama dichiarò finita la Storia. I patti sociali del dopoguerra non servono, ora che è naufragato lo stimolo che fu il comunismo. Quel che prevale è una sorta di spirito anti-conciliare: allo stesso modo in cui la Chiesa disattende sovente la sua stessa dottrina sociale (meno in Europa, più in America), gli Stati affossano la giustizia sociale offerta in pegno nel buio della guerra. Pensano di poter fare l’Europa così, sognando di sospendere lo Stato sociale e l’agorà  democratica con le sue sempre possibili alternative. Non riusciranno, perché un’Europa siffatta è costruzione vana, dietro la quale non ci sono più comunità  di uomini, ma cavalli dalle gambe spezzate.

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