Il soldato Solgenitsyn Come scrivere del mio popolo?

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Quando Gleb uscì dal portone, a oriente la bianca falce della luna calante irradiava ancora tutto il suo residuo splendore e aveva appena iniziato ad albeggiare. Nei suoi rozzi scarponi approntati da lungo tempo per quel giorno i passi di Nertsin echeggiavano sonori sulla terra rappresa dal gelo mattutino. Il rumore delle proprie pedate lo rallegrava e rinvigoriva. Non calzava le solite scarpettine basse da intellettuale, ma fior di stivali in similpelle impermeabilizzata con suole di solida para – fino a quando e fino a dove lo avrebbero portato? Ormai lontano da ogni rilassatezza coniugale si sentiva più leggero rispetto alle ultime ore passate nell’abbraccio di Nadja. Sul cielo punteggiato di rare stelle e illuminato dal chiarore della luna, Orione si era voltato a occidente e la freccia di tre stelle della sua cintura filava veloce verso Sirio, proprio in direzione del commissariato di leva dove stava andando Nertsin, che trasse dalla circostanza un lieto presagio. Gleb immaginava che all’ufficio del commissario avrebbe avuto modo di parlare con qualcuno non privo di buon senso che, sentite le sue ragioni, l’avrebbe destinato, sia pure come soldato semplice, all’artiglieria. In prima linea, e preferibilmente – come era suo ardente desiderio – dalle parti di Rostov. Per posizionare i pezzi nelle radure del parco del Teatro, dove ancora resistevano le fronde dorate di quel lungo autunno. Gli sembrava che se solo fosse accaduto nella natia Rostov, in viale Tkaciov o in viale della Cattedrale, non avrebbe avuto paura né gli sarebbe dispiaciuto cadere a faccia in giù, e rimanere per terra, cadavere freddo e abbandonato.
Stava già  albeggiando quando Nertsin giunse a destinazione. Il commissariato di leva era situato all’interno di un vasto cortile in terra battuta, quasi una piazza d’armi, delimitato da un’alta recinzione in muratura nella quale era stato praticato un passaggio senza munirlo di un portone o di un cancello, vegliato da una sentinella che lasciava entrare solo le persone provviste della cartolina precetto e non lasciava uscire nessuno. Sulla via antistante c’era una piccola folla di donne, una settantina, che si affollavano attorno al piantone; ogni tanto un caporale tarchiato, con un solo triangolo giallo di latta all’occhiello, usciva dalla garitta e le faceva allontanare. Nel vano dell’ingresso, da un angolo del cortile, alcuni uomini, ancora in abiti civili ma uniformemente bigi, cercavano di comunicare a gesti e gridolini qualcosa alle donne. 
Così Nertsin varcò la soglia quasi senza accorgersene e ancor meno ebbe coscienza dell’irreversibilità  di quel passo. Nel cortile c’erano moltissimi uomini, una quantità  addirittura inimmaginabile per il solo distretto di Morozovsk. Il personale, militare o paramilitare, correva da un ufficio all’altro brandendo lunghi elenchi di nomi, alcuni mandavano via i coscritti che si accalcavano nel corridoio, non perché avessero qualcosa da chiedere o da fare, ma per l’unica ragione che ci si stava al caldo. Il solo Nertsin era lì per un valido motivo, trovare una soluzione al suo caso personale. Era stato cresciuto nella convinzione che ogni uomo debba forgiare da sé il proprio destino. E non sapeva che cosa fosse l’inazione. Sentiva in modo acuto che stava perdendo irripetibili minuti, ch’era il momento, quello o mai più, per tentare di rimediare ai guasti prodotti da quella ridicola «idoneità  ridotta» che gli avevano affibbiato in primavera. Ma non riuscì a combinare niente: respinto da tutti i branditori di elenchi, messo alla porta, uno dopo l’altro, da tutti gli uffici, uscì sulla piazza d’armi, sempre con cartella e zainetto. […]
Dagli uffici uscirono alcuni militari coi loro elenchi e ordinarono agli uomini di disporsi in fila per quattro, ma ne venne fuori un ammassamento informe: evidentemente non molti di loro avevano ricevuto un qualche addestramento militare. Rinunciando a farli schierare a dovere, procedettero alla chiama per cognome e ogni interpellato, dopo aver declinato le generalità  per intero, correva verso un autocarro e ci saliva. Avendo già  perduto un’ora a vuoto, Nertsin capiva che stava per succedere qualcosa di irrimediabile, che ormai si era lasciato sfuggire l’occasione di migliorare la propria sorte e che stava per essere sbattuto in chissà  quale posto, non comunque quello giusto, e che non poteva più farci niente. Quando chiamarono lui, uscì dalla fila e annunciò di voler fare una dichiarazione, al che gli indicarono, con varie imprecazioni, l’autocarro più vicino. Ci si arrampicò scalando la ruota e dentro era tutto un brulichio di uomini, molti provvisti di sacchi, intenti a sistemarsi direttamente sul fondo del cassone, con le gambe raccolte sotto di sé e voltati in avanti, con il sergente che li incitava a stringersi ancora di più. Il risultato era una sorta di conglomerato umano e lui c’era dentro senza rimedio. Sì, aveva sprecato stupidamente tempo e occasioni. […] Prendendo velocità  gli autocarri si sottrassero alle mani delle donne e i loro uomini silenziosi si lasciarono alle spalle le loro grida – e la colonna cominciò la sua corsa. 
[…]Nertsin non aveva punti di riferimento per determinare la direzione che avevano preso e di cartelli indicatori sulle nostre strade non ce ne sono mai stati, ma quelli del posto intuirono subito che stavano andando verso Oblivy – la stanica Oblivskaja a sessanta chilometri, la prima più importante andando verso est e allontanandosi dal fronte. […] Lì non c’era proprio modo di farsi sentire dalle autorità , visto che non erano più quelle di Morozovsk, e nessuno a cui rivolgersi per fargli presente la sua particolare situazione. E poi anche il tempo volgeva al brutto e minacciava pioggia e piuttosto che correre per il cortile gli conveniva cercarsi un posto al coperto nel salone del dopolavoro. […]
Nertsin non aveva mai provato in vita sua un tale senso di impotenza e prostrazione come durante quella giornata passata a intirizzire sul pavimento poltiglioso, tra alcune centinaia di sconosciuti però tra loro conoscenti e conterranei. Dopo ventitré anni vissuti prima con la madre e poi con la moglie o ancora nella cerchia di condiscepoli, scolari e poi compagni di facoltà , dove tutto gli era familiare e comprensibile, per la prima volta veniva a trovarsi in mezzo a una simile accolta, ai suoi occhi strana e insensata, di uomini con certe loro leggi primordiali ineludibili, una spietatezza irridente nei confronti di se stessi e di tutti e una dovizia di supposizioni una più cupa dell’altra. Nertsin poté sentire, nell’ordine, che sarebbero rimasti lì ad ammuffire una settimana, dopo di che li avrebbero mandati a piedi fino all’Ural; che la notte stessa li avrebbero imbarcati sugli autocarri e scaricati, senza fucili, in prima linea; che avrebbero loro tolto tutte le provviste (Nertsin ne aveva per un giorno e non stette a preoccuparsi); e che avrebbero confiscato gli stivali, dando loro in cambio scarpe e fasce mollettiere. […] E a Nertsin toccò sentire ancora molte predizioni, tutte fosche e nessuna confortante. Dopo ognuna di esse, è vero, si accendevano animate discussioni, e c’era chi confutava rabbiosamente la data congettura, ma solo per formularne un’altra ancora più spaventosa. Né questa né quella erano peraltro verificabili e la pena del generale scoramento lo stringeva come un anello di ferro. Avrebbe voluto condividere con qualcuno le proprie preoccupazioni riguardo all’artiglieria, ai modi per arrivarci, ma non diceva niente, capendo che si sarebbe reso ancora più ridicolo di poc’anzi con la storia degli stivali, e avrebbero spiaccicato quella sua speranza come una lucertola. Passarono così lunghe, interminabili ore, continuavano ad affluire coscritti. Nertsin era riuscito ad allontanarsi dalla corrente d’aria intrufolandosi un po’ più verso il centro del salone, aveva mangiato senza appetito le uova sode ammaccate che aveva con sé; già  si erano accese le fievoli luci delle lampadine appese molto in alto, ma lui non solo non aveva nessuna voglia di guardare che faccia avessero i propri vicini, ma aveva sempre meno voglia, e l’abulia gli fiaccava le ossa, di pensare e vivere. Dov’era quel giovane paese dalla rossa bandiera ch’egli aveva percorso fino allora con passo leggero? Se quella gente non avesse parlato russo, Nertsin mai e poi mai avrebbe potuto crederli suoi connazionali. Come mai non una sola pagina della sua cara letteratura gli aveva mai fatto sentire quello sguardo di migliaia, inflessibile, cupamente testardo ma che senz’altro racchiudeva un segreto, un segreto senza il quale vivere sarebbe stato impossibile? Osservatori da lontano, signorini! Si abbassavano fino al popolo, loro, ma non venivano scaraventati sullo stesso pavimento di pietra. Ah, come aveva osato solo pensare di poter scrivere la storia di questo popolo?


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