Il ritorno di Ulisse nel cosmo della traduzione
Per più di quarant’anni il lettore italiano di James Joyce ha avuto sugli scaffali e nell’orecchio la traduzione di Ulisse di Giulio de Angelis, pionieristica e ancora straordinaria, ma la scadenza nel 2012 dei diritti letterari sull’opera del grande irlandese stimola una corsa alle nuove traduzioni. Mentre è annunciata da tempo l’attesissima versione di Gianni Celati per Einaudi, Newton Compton ha mandato in libreria con qualche anticipo sulla data fatale della ricorrenza della prima pubblicazione (il 2 febbraio 1922) un nuovo Ulisse a cura di Enrico Terrinoni, attrezzato studioso di Joyce, con traduzione del curatore insieme a Carlo Bigazzi.
La traduzione è in Ulysses una dinamica centrale. La lentezza stratificata e indagante, le virtù di associazione plurima, la visione totale e reticolare che la scrittura di Joyce sviluppa in chi legge sono le armi di cui deve provvedersi quel lettore inesauribilmente prossimo alle cellule minime del testo che è il traduttore; tanto che, si può dire, ogni lettore di Ulysses ne è anche potenziale interprete, intervenendo con la sua esperienza in quel «banchetto dei linguaggi», divinando segni e scintille di un inconscio testuale che si inabissa e riemerge di continuo nel fluire della lettura, in-scrivendo se stesso nell’organismo joyciano. Organismo complesso e a tratti oscuro, come si sa. Triste destino però, va detto, che le parole di un’opera di divertimento estremo, in cui si scatena una furibonda libertà , debbano ispirare timore.
Di fronte alla nuova versione, chi è cresciuto leggendo il Joyce di de Angelis si ritrova subito in terra straniera. Ovviamente non si è immersi nello stesso fiume: Ulysses è cambiato nella nostra percezione ma soprattutto è stato lui negli anni a cambiarci, rifiutandosi di passare in giudicato, rivelandosi sempre caparbiamente contemporaneo. Se risponde alla vocazione del romanzo incrinare l’aura di impenetrabilità che tuttora lo affligge, siano allora benedetti l’esilio nell’incertezza (che è la linfa di Ulysses) e quella sensazione di sradicamento dai percorsi fissi di lettura che ci precipitano senza rete nel cuore dell’esperienza di linguaggio di Joyce. L’impressione più bruciante per chiunque vi si sia accostato è che il monstrum joyciano abbia esteso incredibilmente lo spazio del dicibile. Epica del quotidiano sulla tela del mito, affermazione trionfante della corporalità contro le tentazioni metafisiche e nichiliste, enciclopedico, simultaneo tentativo di verbalizzazione dell’uomo nel mondo e del mondo nella testa, Ulysses elegge a protagonista una parola che è lei stessa traduzione dalla lingua magmatica della mente, trasformazione inesausta dei suoni nei sensi e viceversa. Nell’impertinenza ritrosa e malleabile della sua pasta fonica, la parola è un prisma che assorbe e riflette occultamente ogni voce più diversa, irradiando sensi ulteriori e stratificati. In queste dislocuzioni, come le ha chiamate Fritz Senn, si compattano un massimo di esattezza e un massimo di ambiguità , inscindibili, talmente connaturate alla lingua inglese da funzionare come dei test su limiti e singolarità delle altre. La resa traduttiva sarà allora a maggior ragione un accostamento, una risposta storica che può soltanto additare l’irriducibilità dell’originale, come Joyce stesso pensava, ciò nonostante incoraggiando e affiancando i suoi traduttori (anche quelli nella lingua di Dante e Vico).
Tradurre non può essere una passione triste, e dunque l’interprete di Ulysses non ha altra strada che abbandonarsi al movimento della propria lingua, come Stephen Dedalus nella sua avanzata a occhi chiusi sulla spiaggia nella diversità ineludibile degli aspetti del mondo (nel terzo capitolo, non a caso Proteo); scavalcando la tentazione della riverenza paralizzante e della disillusione, potrà così intercettare nell’italiano le frequenze di una lealtà alla forza motivante della scrittura joyciana, all’esuberanza irrefrenabile del satirical humor del dublinese, declinata in una imperterrita «vendetta» sulla parola sacra del cattolicesimo – che ossessionò sempre Joyce anche dopo il rifiuto – e sull’inglese del dominio britannico, che lo scrittore esule non manca di infettare con sottosensi obliqui quanto quotidiani, comprensibili unicamente a un lettore irlandese. Divenuto Ulisse di risorse e astuzie del proprio idioma, chi traduce lavorerà senza soffocare quella latente debolezza di microtoni opachi, di stati gassosi dell’espressione, che emette radiazioni anche in molecole evanescenti (come il miagolio, «Mrcrgnao», della gatta di mister Bloom in cui si infiltra subdolo il nome e nume di Mercurio).
Qui la scommessa, sostenuta in coda al volume da un apparato di note e commento agilissimo e aggiornato, è un Ulisse più prossimo a noi, e dalla cui innegabile complessità emergano aspetti finora meno illuminati, primo fra tutti – scrive Terrinoni – la sua «insita democraticità , nutrita dal desiderio di scrivere per la gente, oltre che della gente». Questa nuova traduzione, necessariamente alternativa ma che presuppone con coscienza le qualità di quella sinora canonica, esibisce una personalità vitale che si rivela in una più attenta calibratura di toni e registri, orientati verso un recupero della gestualità colloquiale e dell’humus popolare irlandese,nonché dei dettagli quotidiani delle peregrinazioni urbane di Leopold Bloom e Stephen Dedalus in quel «giorno dei giorni», il 16 giugno 1904 (pubblicità , cronaca dei giornali, canzonette).
L’aberrante scena onirico-drammatica di Circe, trionfo della metamorfosi e dell’inversione, vive dell’intensa comicità corporea intrinseca all’Ulisse, mentre la cattura dell’elemento aulico in una rete di irrisioni parodiche prende a bersaglio la lingua stessa in quanto codice fisso, futile lettera morta istituzionalizzata in uno stile: nel capitolo forse più arduo, gli Armenti del Sole, banco di prova impegnativo per ogni traduttore, la cavalcata parodica attraverso tutti gli stili della prosa inglese dal Medioevo ai vittoriani è ora un pastiche in embrione, in cui la traduzione dà il senso del salto storico lasciando una patina straniata senza arrischiarsi a fare il verso alla coeva prosa italiana. Più coraggio e penetrazione sapiente della novità di Joyce sono poi stati riversati nel finale, nella resa del celebre dormiveglia di Molly Bloom, dove la vitalità del testo-coscienza in flusso continuo si libera dalle inferriate della correttezza grammaticale. D’ora in poi sarà nel cosmo plurale delle traduzioni di Ulysses che continuerà a risuonare anche in italiano il soffio della sua ultima parola, il suo supremo, sempre sfuggente, Yes.
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