Il “Ravvedimento” di Gramsci
Da molti anni si scrive e si discute appassionatamente di Antonio Gramsci. L’interesse in Italia e nel mondo sembra inesauribile eppure rimane evanescente ancora ciò che, a settanta anni dalla morte, dovrebbe costituire l’oggetto primo di ogni riflessione biografica: il carattere, l’esperienza umana, la sofferenza, la percezione dell’amore e della morte. Temi difficili, certo, ma i soli che consentano oggi di rileggere e comprendere molti testi gramsciani (e non solo). Invece della vita di Gramsci conosciamo poco e ogni elemento risulta filtrato negli anni da una storiografia a volte troppo politicizzata.
Basta citare un esempio – ma si tratta di un elemento che riveste una evidente e persino dirompente rilevanza interpretativa. Nel settembre del 1934 Antonio Gramsci, ricoverato in una clinica di Formia in stato di detenzione, inviò una lettera manoscritta a Mussolini e chiese la concessione della libertà condizionale. La richiesta fu accolta e poco dopo Gramsci fu prelevato dal Professor Vittorio Puccinelli, luminare della chirurgia italiana nonché medico personale di Mussolini, e trasferito nella più accogliente delle cliniche romane, la Quisisana. Per Gramsci fu una svolta a cui da tempo e minuziosamente si era preparato. Alla Quisisana, nella sua nuova condizione, avrebbe potuto curarsi, incontrare ogni giorno i familiari e la cognata Tat’jana Å ucht, informarsi del mondo “grande e terribile”, finalmente scrivere senza censure, forse rivedere anche Julija e i suoi due figli.
Nel prendere atto della misura accordata in favore di Gramsci le biografie osservano che “vi fu un indulto” e “venne promulgata un’amnistia” a causa della “forte pressione esercitata dall’opinione pubblica internazionale” preoccupata per le condizioni di salute del prigioniero. Eppure i documenti raccontano una vicenda diversa e ben più complessa. Gramsci si appellò a un articolo del Codice penale (il n. 176) che prevedeva la concessione della libertà condizionale in caso di ravvedimento del detenuto, una procedura analoga alla domanda di grazia. Nel testo era scritto a chiare lettere: «Il condannato a pena detentiva che, durante il tempo di esecuzione della pena, abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento, può essere ammesso alla libertà condizionale». Gramsci non chiese invece l’applicazione degli articoli che prevedevano la sospensione della pena per ragioni di salute. La documentazione indica inoltre che dal carcere Gramsci si adoperò (scongiurando Tat’jana di seguire le sue indicazioni) affinché non fosse avviata alcuna campagna per la sua liberazione e i vertici del Pcd’I non fossero informati delle sue iniziative. Del resto, poco prima da Parigi i comunisti avevano lanciato una campagna in suo favore e Gramsci comprese che ogni speranza era stata così compromessa; Mussolini non avrebbe ceduto a pressioni politiche o di piazza. Il percorso giudiziario (e non solo) del detenuto Gramsci fu dunque diverso da quello che la storiografia ha fino a oggi indicato.
Viene da chiedersi se con il “ravvedimento” e la richiesta inoltrata a Mussolini Gramsci tradì la fiducia dei compagni (in primo luogo quelli detenuti) e i suoi stessi principii. Ma il concetto di “tradimento” è in questo caso, come in mille altre analoghe circostanze, nemico della ragione, della pietas e del semplice buon senso. Gramsci stesso aveva scritto: «In Italia dicono che uno diventa vecchio quando incomincia a pensare alla morte; mi pare una osservazione molto assennata. In carcere questa svolta psicologica si verifica appena il carcerato sente di essere preso nella morsa e di non poterle più sfuggire». Era, lo ricordiamo, il 1934 e nessun dirigente comunista aveva (né avrebbe) ottenuto la libertà condizionale senza fornire prova di “sottomissione”. Il percorso seguito da Gramsci era stato particolarmente sofferto. Nel carcere di Turi aveva parlato a lungo, fra gli altri, con Francesco Lo Sardo, un deputato arrestato, come Gramsci, nel novembre del 1926. Lo Sardo era cardiopatico e, dietro insistenza della moglie si era risolto infine ad associarsi alla domanda di grazia per potersi curare in una clinica. Anche i Carabinieri si espressero a favore di un atto di clemenza ma sul fascicolo è scritto: «È uno dei più temibili nemici del Fascismo». La domanda fu respinta e Lo Sardo morì in carcere dopo una straziante agonia.
Anche Gramsci era malato. I farmaci antipsicotici che assumeva, i dolori alla schiena, alle mani, alle gengive, le nevralgie che lo assillavano, già da anni lo avevano indotto a vivere lontano dai compagni e celare elementi intimi e privati della sua vita. È singolare, di nuovo, che le biografie abbiano qualificato i padroni di casa di Gramsci a Roma tra il 1924 e il 1926, i coniugi tedeschi Clara e George Philipp Passarge, come ignari “affittacamere”. Non lo erano. Passarge era tra i più noti farmacisti della capitale, in relazione con i migliori medici e scienziati, da Raffaele Bastianelli a Giovanni Battista Grassi. Il figlio dei Passarge, Mario, era il corrispondente del Vossische Zeitung e ben introdotto negli ambienti politici e parlamentari della capitale; era anche intimo amico di Carmine Senise, il futuro Capo della polizia. Senise tenne a battesimo la figlia di Passarge, Dagmar, proprio nei mesi in cui Gramsci viveva nel villino in Via Morgagni. La sola, plausibile spiegazione alla sorprendente convivenza è che Gramsci intendesse proteggere la propria riservatezza e la propria salute. Nell’accogliente appartamento dei Passarge, nel più borghese e “tranquillo” dei quartieri di Roma, avrebbe proseguito le cure intraprese in Russia e in Austria; avrebbe ottenuto i farmaci di cui aveva bisogno e richiesto, quando necessaria, l’assistenza di sanitari in un ambiente familiare che, con ogni evidenza, Gramsci apprezzava. Stupisce che Mario Passarge, dopo l’avvento del nazismo, si trasferì a Berlino per guidare l’ufficio stampa dell’NW7, il temibile servizio di spionaggio della I.G. Farben, e che per questo fu chiamato a testimoniare al processo di Norimberga per crimini di guerra. Ma questa, certamente, è un’altra storia.
Gramsci si spense a Roma nell’aprile del 1937. Aveva 46 anni. Le ricerche fin qui condotte dagli storici non spiegano neppure chi, al termine della degenza, estinse il debito con la clinica Quisisana e saldò le parcelle dei medici. Sappiamo tuttavia che Gramsci avrebbe preferito la più sobria casa di cura “Diaconesse germaniche” dove, alcuni anni prima, si era spenta la Signora Clara Passarge. Nel 1938, alla vigilia del suo ritorno in Russia, Tat’jana Å ucht depose l’urna con le ceneri nel cimitero protestante di Roma in un luogo appartato lungo le mura aureliane. Poco lontano erano la tomba della Signora Clara e il monumento in marmo bianco dedicato alla figlia Elsbeth, scomparsa a soli quindici giorni dal matrimonio. Nel corso degli anni il monumento alla ventenne tedesca divenne meta di un singolare pellegrinaggio. I visitatori del cimitero, ancora oggi, depongono fiori tra le mani della sposa dal viso triste perché, a cento anni dalla sua morte, ancora Elsbeth Passarge “dona fortuna” a chi la ricorda. Nel dopoguerra, invece, la tomba di Gramsci fu trasferita presso i cancelli di ingresso al cimitero affinché i visitatori, sempre più numerosi alle commemorazioni del Partito, non affollassero i sentieri che separano le tombe austere e silenziose degli acattolici. Un altro, sottile filo della memoria venne reciso in nome della condivisione del mito.
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