Il pronto Soccorso Linguistico

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Ciliegie o ciliege? Tutt’e due, dicono Valeria Della Valle e Giuseppe Patota. Abbinare le scarpe alla borsa o con la borsa? Tutt’e due, insistono. Per tanto o pertanto? Pertanto. E così per oltre duemilaquattrocento dubbi – ortografici, lessicali, di grammatica o di sintassi. Ciliegie o ciliege? (Sperling & Kupfer) si intitola il decimo libro scritto da questa coppia di linguisti (lei è professoressa alla Sapienza di Roma e coordinatrice scientifica del Dizionario Treccani, lui è professore a Siena-Arezzo, direttore del Dizionario Garzanti) che da sedici anni va svolgendo con vari mezzi una pratica di pronto soccorso. Della Valle e Patota sono seduti dietro uno sportello unico delle incertezze: si dice archeologi o archeologhi? Rubrìca o rùbrica? Io bollo o io bollisco? Cominciarono nel 1996 con Il salvalingua. E da allora hanno perseguito l’ideale divulgazione di un italiano corretto, né sciatto né congelato, né da salotto né da bettola. Un italiano d’uso. Poca indulgenza per la lingua plastificata, nessuna per gli svarioni dei personaggi pubblici, molta tolleranza per chi incespica. 
Ora, dopo i libri sulle regole, dal congiuntivo alle preposizioni, a come costruire una relativa o confezionare una lettera molto formale, dopo i libri che spiegano perché è giusta una cosa e perché è sbagliata un’altra, gli ultimi tre anche in ebook, ecco il più secco di tutti: si dice così o no, oppure si può dire sia così che così. Una vocabolario senza definizioni. Appunto: un pronto soccorso linguistico. «Abbiamo incontrato migliaia di persone in questi anni, poi abbiamo fronteggiato le domande dei nostri studenti e abbiamo colto un bisogno di sicurezza, la richiesta di una risposta netta», dice Valeria Della Valle. Che però in italiano non è sempre detto che ci sia. «È vero, ma tutte le volte che cercavamo di spiegare che le soluzioni non erano uniche, scorgevamo un velo di delusione. E abbiamo tirato fuori questo prontuario che però è il distillato di un lavoro di anni, scientifico, accademico e di divulgazione».
Il salvalingua, poi Il salvatema, Il salvastile, Viva il congiuntivo e Viva la grammatica. Ogni libro intorno alle 10 mila copie, centomila in tutto. Qualcuno è arrivato a cinque edizioni. Uno è stato appena tradotto in giapponese. E poi c’è la tv (Patota cura «Cantieri d’Italia», un programma d’italiano per stranieri), gli incontri con i lettori, nelle scuole. In giro da Cuneo ad Agrigento. All’ultimo Festivaletteratura di Mantova le prenotazioni per partecipare alla loro lezione-spettacolo si sono chiuse con molti giorni d’anticipo e a impedire alla folla di entrare c’erano i vigili del fuoco. Il prossimo appuntamento è all’Auditorium di Roma, per la rassegna Libri Come.
Lezione-spettacolo? Che vuol dire? «Presentiamo le norme grammaticali aiutandoci con le canzoni, con brani televisivi o tratti da film», risponde Patota. Per esempio? «Nel blu dipinto di blu di Modugno è un’ottima introduzione per il modo infinito. Per spiegare il congiuntivo mettiamo E se domani di Mina. E per mostrare che cosa non bisogna fare abbiamo un’intervista a Renzo Bossi, uno spezzone del film Tutta la vita davanti in cui Sabrina Ferilli interpreta l’arricchita ignorante che esclama: “Vorrei che ci sei anche tu…” e una dichiarazione dell’ex ministro della Pubblica istruzione Francesco D’Onofrio che se ne uscì con un “Vorrei che ci parliamo”. E poi avviamo il toto-lingua, un gioco a premi. Chi indovina vince libri». 
A proposito di censure: vi è capitato che colleghi linguisti vi guardassero con sufficienza, per questa opera di divulgazione? Della Valle e Patota rispondono all’unisono: «Qualche sussiego accademico l’abbiamo avvertito, ma all’inizio. A noi sembra d’aver occupato una casella vuota. Un po’ come Piergiorgio Odifreddi per la matematica. Prima di noi, Cesare Marchi tentò la via della divulgazione linguistica, ma stigmatizzava troppo, teneva troppo il ditino alzato». 
Ma da che cosa dipende quest’ansia di certezze in fatto di lingua? Della Valle: «È forte la convinzione che un errore grammaticale o di ortografia sia soggetto a una sanzione sociale, a una forma di censura. E quindi si vuole a tutti i costi evitarlo. Lei ricorderà  il coro di risate che accolse Maria Stella Gelmini, allora ministro della Pubblica istruzione, che alla Camera disse egìda invece di ègida. È solo un esempio. Qualche tempo fa a Roberto Saviano è scappato un qual’è con l’apostrofo su Twitter. In un articolo del Giornale lo hanno fatto nero». Patota: «Il personaggio pubblico che incorre in uno svarione non viene perdonato. Ma più che l’errore in sé, colpisce l’arroganza con la quale a volte reagisce chi viene colto in fallo». Per esempio? «L’onorevole Micaela Biancofiore ha replicato in maniera smodata a Gian Antonio Stella che le addebitava stà  e pò con l’accento, l’amantide invece che la mantide, e un doppio n’è invece che la negazione né. Qualche settimana fa Gianni Alemanno è andato in un liceo romano e ha detto: “Spero vi servi”. Uno studente si è alzato e se n’è andato e lui ha reagito: “Quelli del classico ci tengono a queste cose”».
La Fornero o Fornero? «Fornero, senza alcun dubbio», sentenzia Patota, che sottolinea, a dispetto dell’italiano di Roberto Calderoli o del giovane sottosegretario Michel Martone, «l’eccellente, l’articolatissima, la ricchissima lingua di Mario Monti e di Giorgio Napolitano». Ma le incertezze e i dubbi non sono affare recente. La nostra è una delle poche lingue, concordano Della Valle e Patota, che per secoli si sia trascinata una “questione”. Da Dante a Pasolini è un lungo elenco di autori che, prima di mettersi a scrivere, si siano interrogati su quale lingua usare. Alessandro Manzoni e Graziadio Isaia Ascoli hanno dato vita a una lunga discussione, nella seconda metà  dell’Ottocento, su quale dovesse essere la lingua degli italiani. E poi la lingua scritta era una cosa, quella parlata una cosa spesso diversa. E i dialetti. E l’analfabetismo. «Di recente mi sono occupata della lingua di Quintino Sella, matematico, geologo e poi ministro delle Finanze», racconta Della Valle. «Lui sosteneva che solo un’unione politica e culturale avrebbe prodotto “la lingua di tutti”». 
Il senso di instabilità  e la ricerca di una norma i parlanti italiani le trascinano da sempre. «E per questo occorre essere indulgenti. Soprattutto quando il bisogno di certezze», dice Patota, «è espresso da gruppi sociali arrivati solo di recente a impossessarsi di una lingua comune. Quanti italiani avevano un nonno che parlava solo il proprio dialetto? Non dobbiamo scandalizzarci». Interferisce ancora il dialetto? Quanto pesa la presenza dei dialetti in quell’incertezza che avvolge l’uso dell’italiano? «Sempre meno», risponde Della Valle. «Il che non vuol dire che il dialetto non abbia una propria vitalità : il fatto è che sempre più parlanti riconoscono gli ambiti in cui l’italiano è indispensabile, per esempio un colloquio di lavoro, e quelli in cui ci si può rilassare con il dialetto. Talvolta però spunta l’espressione regionale: qualche mio alunno, di origine meridionale, mi dà  del “voi”. Io provo a spiegargli che non va bene. Lui mostra di capire. Poi se ne va dicendo: “Scusatemi”».


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