il Pil della Apple, gli eredi di Jobs nel G20

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Quando il valore complessivo delle azioni Apple, la «capitalizzazione», ha superato i 470 miliardi di dollari – abbastanza per ricostruire la Grecia dalle fondamenta o evitare una decina di future strazianti «manovre» agli italiani – facendone la più ricca azienda del pianeta Terra, se esiste un paradiso per i «nerd», per i guru, per i geni del marketing, per i profeti delle tecnologie, da quel paradiso Steve Jobs deve avere sorriso.
Da quel 5 ottobre dello scorso anno nel quale lui si arrese definitivamente al male che lo aveva consunto, e il titolo della Apple Inc. era sceso a 366 dollari, le azioni di Santa Madre Mela sono risalite ieri a 503, praticamente una resurrezione pagana. Dalla prima Opa, dal lancio in Borsa della società  il 19 dicembre del 1980 a oggi chi avesse comperato quel titolo avrebbe visto il proprio investimento crescere di oltre centoventi volte. Quattro mila dollari, sarebbero diventati più di 500 mila. 
Nessun altra «public company», società  per azioni pubblicamente quotata, neppure la mostruosa Exxon che ora la Apple ha detronizzato dal primo posto fra i colossi, ha conosciuto una tale parabola di umilissime origini, di successi iniziali, di catastrofico collasso e poi di beatificazione commerciale e finanziaria come la Apple. E nessun altro fenomeno culturale e industriale è stato vivisezionato, tra beatificazione e demonizzazione, come il successo di un’idea neppure originale, tratta da lavori sperimentali condotti da altre società  come la Xerox per rendere più «user friendly», più facili da usare e intuitivi con mouse e interfaccia grafico, gli esoterici computer delle prime generazioni per smanettatori dedicati.
Nel motore di ricerca dell’ormai grande, e forse unica rivale, la «Google», il nome di Steve Jobs produce un milione e quattrocentomila «hit», risultati, il doppio di Barack Obama, il quintuplo dell’amico/avversario Bill Gates di Microsoft. Nella immensa libreria di Amazon, un’altra delle concorrenti che stanno cercando di intaccare la Chiesa della Mela, ci sono ottomila e 577 libri su Jobs e addirittura più di 32 mila titoli a proposito della Apple. Soltanto Gesù Cristo, per numero di libri, supera Apple e Jobs. Per ora.
Se la «capitalizzazione» di un’azienda privata potesse essere per puro divertimento aritmetico, traducibile in Prodotto Interno Lordo, Apple sarebbe la ventesima potenza economica della Terra, davanti a nazioni come il Belgio, l’Austria, l’Argentina, il Sud Africa, naturalmente la Grecia o il Portogallo. Non avrebbe bisogno né di stangate, né di piani sanguinosi di austerità . Alla fine dello scorso anno, quando il governo federale americano era sul lastrico per il rifiuto dell’opposizione di aumentare il tetto del debito, Apple disponeva di più riserve liquide dello US Government per una cifra mostruosa di circa 80 miliardi. Pronto cassa.
Come tutte le sette che esplodono nel mondo in grandi religioni organizzate e sopravvivono alla loro difficile infanzia che i «Vangeli secondo Apple» hanno più volte narrato dalla Betlemme nel garage familiare, all’adozione del piccolo Mosè dei computer rifiutato dalla famiglia, alla predicazione da outsider antisistema fino al diventare lui stesso il sistema, anche questa congregazione transnazionale incontra tanta ostilità  quanta adorazione. È nato in questi giorni il primo virgulto anti-Mela prodotto dall’albero degli «Occupy Wall Street», chiamato prevedibilmente «Occupy Apple». Sui grandi media, come nel fiorente sottobosco dei blog e dei siti minori, fioriscono le accuse di osceno sfruttamento della manodopera cinese, soprattutto in quella fabbrica dal film dell’orrore sindacale, la Foxconn, dove i figli del cosiddetto «miracolo cinese» lavorano in turni anche di 16 ore, in questi giorni di superlavoro per sfornare i nuovi iPad3 e iPhone5 di prossima uscita. Sono rifocillati con una tazza di tè e un biscotto secco, racconta il New York Times, e pagati 70 centesimi di dollaro, 50 centesimi di euro, all’ora. Otto euro al giorno. E fanno la fila per essere assunti fra i 400 mila operai che in Asia lavorano per conto della Apple in diverse aziende fornitrici, quando non si buttano dalla finestra, spezzati nel corpo e nello spirito.
È il nuovo mondo del «monopsonio», nel quale un solo compratore – in questo caso la Apple – ha di fronte molti venditori che competono fra di loro per ottenere il contratto di fornitura, l’opposto del «monopolio», dove un solo venditore controlla il mercato degli acquirenti. E più la Chiesa di Cupertino cresce, più aumenta il potere di «monopsonio» verso i fornitori, mentre comincia a delinearsi anche un’ipotesi di monopolio, vista la quota di mercato, come già  ebbe la Microsoft di Gates, quando il 95% dei PC nel mondo funzionavano con i suoi sistemi operativi. Oggi la Microsoft è stata ampiamente staccata dalle Apple fra le grandi del mondo «high tech» e vale circa la metà , con 251 miliardi. E si profila l’avvento della «Apple TV» dei televisori che integrano tutte le forme di comunicazioni, controllabili con i gesti della mani, senza telecomandi.
L’attacco concentrico di giornali, reti tv, blogger e soprattutto concorrenti industriali frustrati non è mai stato così forte. Cresce in misura direttamente proporzionale all’espandersi della Santa Chiesa della Mela e della sua mistica che ormai ha convertito consumatori dai nuovi «Apple Store» di Pechino al primo aperto, sperimentalmente, in un sobborgo di Washington, in una località  chiamata Tyson Corner. Un evento che sembra appartenere all’archeologia del commercio, ma che risale ad appena undici anni or sono, 2001, in maggio. Erano appena quattro mesi prima dell’attacco alle Due Torri e al Pentagono, per colpire il quale il jumbo della American Airlines controllato dai terroristi dovette sorvolare a bassa quota proprio il centro commerciale con il primo negozio-tempio della Apple. Da allora, il numero di questi centri, tutti simili, tutti perennemente brulicanti di curiosi, di acquirenti, di bambini che giocano con gli ultimi prodotti messi a loro disposizione, in qualcosa che sta fra il kindergarten, l’oratorio e la chiesa, sono diventati, alla faccia dei jihadisti lanciati contro l’orco yankee, 396 nel mondo. Ma ancora nessuno nel mondo arabo o in quello mussulmano.
E questo valore mistico, soltanto in parte leggibile razionalmente attraverso la qualità  dei prodotti o la loro performance, che rende furiosi i detrattori e disperati i concorrenti. Molte altre aziende eccellenti, dalla Samsung alla Nokia, dalla Rim di Blackberry alla Sony, producono gadget e computer non inferiori a quelli progettati nel Vaticano di San Bernardo da Cupertino, in California, e fabbricati in Cina. Durante l’ultima Super Bowl, la finale del campionato di football con il record assoluto di ascolti negli Usa – 115 milioni – i rivali hanno speso 15 milioni di dollari in spot da tre milioni ciascuno per demolire la Apple, ridicolizzare i suoi fedeli, raccontati mentre fanno file di ore per impossessarsi dell’ultimo oggetto quando potrebbero, per meno soldi e senza perdere tempo, acquistarne uno che funziona anche meglio.
Amazon, che offre il suo «Kindle», tavoletta per la lettura dei libri e ora anche per la navigazione in rete, grida al pubblico che al prezzo di un iPad ti vende tre dei suoi prodotti. Eppure le quote di mercato salgono implacabili, perché il mondo Apple, come rilevano gli analisti che prevedono altri aumenti per il valore del titolo, è un universo chiuso, una trappola per aragoste che risucchia e cattura per sempre chi vi entri, attraverso musica, app, video, nuvole per l’archiviazione di tutta la propria vita, smartphone. «Presto – scherza Guy Kawasaki, uno dei primi “evangelisti” della Mela negli anni 80 – dovremo convocare un Concilio, per definire la dottrina».
In un segno di sconfortante avanzata, per i rivali e gli «infedeli», anche le barriere che il «business» il mondo delle aziende opponeva ai prodotti della Mela stanno cadendo. Quegli oggetti tanto, troppo «carini» e leziosi per finire nella mani di severi uomini d’affari in grisaglia e di avvocatesse con tracolle porta PC, sono sempre più adottati anche dalle più arcigne corporation. Lo hanno deciso la Bank of America, la Citi, la GM e la tentacolare Halliburton. Rimpiazzeranno progressivamente i Blackberry in dotazione ai dipendenti con gli iPhone di nuova generazione prossimi all’uscita. Sono centinaia di migliaia di pezzi. La marcia di Santa Madre Mela sembra inarrestabile. In hoc signo, vendi.


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