by Sergio Segio | 17 Febbraio 2012 10:45
PERCHà‰ MAI proprio quel giorno anziché un altro? In Shah-in-shah, l’appassionante reportage sul crollo del regime di Reza Pahlavi, Ryszard Kapuscinski si interroga sulla genesi dei moti di rivolta. Perché, si chiede, la gente in genere accetta la miseria e l’oppressione come se disegnassero l’ordine naturale delle cose e poi all’improvviso, un giorno, quell’ordine salta in aria? «È un processo insolito», continua Kapuscinski, «che talvolta si compie in un attimo come per una specie di choc liberatorio: l’uomo si sbarazza della paura e si sente libero. Senza questo processo, non ci sarebbe alcuna rivoluzione». Viene da pensare a questo celebre passo del narratore polacco, leggendo il diario di Yvan Sagnet, portavoce l’estate scorsa di una singolare rivolta che ha scosso le campagne del Meridione d’Italia. Il diario è contenuto in Sulla pelle viva (DeriveApprodi), ed è davvero una pagina di storia contemporanea.
PER LA PRIMA VOLTA, l’estate scorsa, centinaia di braccianti africani, vessati dai caporali nella raccolta dei pomodori, si sono ribellati contro un sistema di sfruttamento pre-moderno. Hanno incrociato le braccia e hanno bloccato la raccolta dell’oro rosso per almeno due settimane. Da quel momento, per la prima volta, qualcosa nel circolo vizioso di miseria e oppressione, che regola le raccolte agricole e lo sfruttamento delle braccia migranti nelle nostre campagne, si è rotto per sempre. È accaduto a Nardò, nel profondo Salento, e in pieno agosto, a due passi dagli ombrelloni di Gallipoli.
Yvan Sagnet, divenuto in breve uno dei leader della protesta, a Nardò ci è capitato quasi per caso. Studente di ingegneria al Politecnico di Torino, è nato in Douala (in Camerun) nel 1985. Da quattro anni vive in Italia, e quando qualcuno gli ha proposto di andare a raccogliere angurie e pomodori all’altro capo del paese, non ci ha pensato due volte: era l’unico modo per pagare le tasse universitarie. Solo dopo essere giunto lì ha scoperto il sotto-mondo del caporalato: «Un’altra Africa, un’altra Italia».
Sagnet spiega molto bene quale sia stata «la scintilla della protesta», l’attimo in cui ogni sopruso è apparso inaccettabile. Dall’istante in cui hanno sfidato il loro caporale, guardandolo negli occhi e rifiutando i suoi ordini, una gabbia disciplinare è andata in frantumi. Ma per capire la portata di quel gesto, occorre spiegare anche la “legge” infranta, il “normale” sistema di sfruttamento cui si sono opposti. Nelle campagne del Sud Italia si è realizzato un intreccio perverso tra globalizzazione e arcaicità . I frutti della terra non vengono più raccolti dai cafoni di Levi o Silone, bensì da braccianti tunisini, sudanesi, ivoriani, ghanesi, rumeni, bulgari… L’irrompere in massa di questa manodopera globale ha prodotto la più radicale trasformazione antropologica del Mezzogiorno rurale degli ultimi 15-20 anni. Tuttavia si lavora ancora sotto caporale, esattamente come un secolo fa. La giornata di un bracciante africano è drammaticamente simile a quella di un lavoratore dei tempi di Di Vittorio, come se nulla intorno fosse cambiato. Stessa fame, stessa sete, stessa precarietà . Stesso sistema di lavoro. Nella raccolta del pomodoro ad esempio, i braccianti di Nardò sono stati pagati a cottimo: 3,50 euro per ogni cassone di pomodoro raccolto. Un cassone contiene 4 quintali di prodotto, e un uomo adulto, ben allenato, mediamente riesce a riempirne 6-7, in un “turno” che va dalle 4,00 del mattino fino alle 6,00 di pomeriggio. Poi, però, a quella magra paga vanno sottratti 5 euro da dare al caporale, il signore dei campi, l’unico intermediario tra quelle braccia senza diritti e le imprese italiane che se ne servono.
In genere tutto questo viene accettato senza ribellarsi. Qualche anno fa, nella stessa Puglia, un’inchiesta della magistratura sulla riduzione in schiavitù nel comparto agricolo fece emergere addirittura parecchi casi di braccianti uccisi o scomparsi, probabilmente per il semplice fatto di essersi ribellati ai loro kapò. Raramente ci sono stati, negli ultimi anni, esplosioni di rabbia contro quest’ordine delle cose. È accaduto a Rosarno, certo. Ma ciò che è successo a Nardò, in Salento, segna uno spartiacque. Non si è trattato di un semplice moto di ribellione, ma di uno sciopero autorganizzato che ha raggiunto forme particolarmente mature di organizzazione e di riflessione.
Sicuramente ci sono dei fattori che lo hanno favorito. Innanzitutto, i braccianti entrati in sciopero erano alloggiati presso una masseria, all’interno della quale lo scambio di idee con associazioni antirazziste, sindacalisti e attivisti di base contro il lavoro nero è stato forte. La somma delle loro storie individuali ha fatto il resto. Nei campi di Nardò c’erano anche ragazzi africani appena sbarcati dalla Libia. Tuttavia la maggior parte di essi vivevano in Italia da più di dieci anni, e sovente, a causa della crisi, erano stati espulsi dalle fabbriche del Nord. Approdati al Sud, è stato proprio il confronto tra le due condizioni di lavoro e di vita ad accendere la protesta.
Terzo fattore: lo sciopero ha fatto emergere dei portavoce. Non uno, ma parecchi. La vicenda umana di Sagnet non è l’unica, ma è sicuramente la più significativa. Nelle sue parole è possibile leggere qualcosa di antico e allo stesso tempo spiccatamente universalista. In una Italia sempre più multiculturale iniziano a emergere, intorno alle semplici idee di libertà e di giustizia, e intorno al rifiuto dell’oppressione più brutale, forme di associazione, di rappresentanza e di racconto del tutto nuove.
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