Il Made in Italy della Filosofia
Può apparire paradossale che mentre i filosofi italiani vengono invitati a scrivere in inglese dagli organi di valutazione accademica, la più aggiornata cultura filosofica americana da qualche anno parla italiano. Il fenomeno è sotto gli occhi di tutti. Non passa mese che in America non escano traduzioni, monografie e fascicoli di rivista dedicati alla Italian Theory, mentre si celebrano a ripetizione convegni su di essa, come recentemente alla Università di Cornell (The Common in Contemporary Italian Thought) e del Massachussets (Italian Social Theory), per non parlare di quello a New York sul New Realism. Dopo la pubblicazione del volume collettaneo Italian Difference (Melbourne 2009), della rivista Angelaki (Routledge 2011) su Italian Thought Today, degli Annali di Italianistica 2012 di Chapel Hill su Italian Critical Theory, dell’annata 2012 di Law, Culture and the Humanities, consacrata al pensiero italiano, è in uscita un altro fascicolo di “Diacritics” – la stessa rivista che negli anni Ottanta ha lanciato Derrida e i decostruzionisti francesi – sempre sulla Italian Theory. Quando anche sulla copertina di Foreign Affairs è apparso il volto di Croce (ne ha parlato su queste pagine Angelo Aquaro) – in corrispondenza con la pubblicazione del libro di B. e R. Copenhaver From Kant to Croce. Modern Philosphy in Italy (University of Toronto Press) – non è rimasto che prendere atto della cosa. Può piacere o meno, ma mentre si lamenta ritualmente l’arretratezza dei nostri studi, i filosofi italiani sfondano in America – non tanto nei dipartimenti di filosofia, ancora dominati dalla linea analitica, ma nell’ambito degli studi politici e sociali, dell’arte e della letteratura, postcoloniali e di genere.
Come si spiega questa svolta che muta radicalmente il panorama, cui fino a qualche anno fa eravamo assuefatti, di un Paese culturalmente emarginato? Cosa cercano, e cosa trovano, gli americani – ma il fenomeno è in rapida diffusione dovunque, dal Giappone al Brasile, dall’Australia alla Corea – nell’Italian Theory? Per rispondere a questa domanda è necessario innanzitutto richiamare il carattere non nazionale – ed anzi tendenzialmente antinazionale – del pensiero italiano. Fin da sempre – dalla stagione rinascimentale – la filosofia italiana ha guardato oltre i propri confini, irradiandosi all’esterno e contaminandosi con altre tradizioni. Ciò è dovuto innanzitutto all’assenza, per secoli, di uno Stato nazionale. Naturalmente questo elemento di extraterritorialità è stato spesso visto come una forma di ritardo storico rispetto ad altri, più precoci, contesti nazionali. Ma, al contempo, ha liberato il nostro pensiero da vincoli politici ed istituzionali che hanno condizionato altre filosofie. In Italia è mancato un pensiero dello Stato come quello di Hobbes o di Hegel – ma proprio perciò la politica è stata colta, da Machiavelli fino a oggi, nella sua energia sorgiva e nella sua forza creativa.
Allorché la globalizzazione ha ridimensionato pesantemente il rilievo degli Stati nazionali, una filosofia come quella italiana, fin da sempre orientata a pensare la politica prima e oltre lo Stato, si è trovata in una condizione migliore per afferrare le dinamiche contemporanee. Anche a prescindere da una valutazione di merito, un libro come Impero di Negri e Hardt ha questo sguardo globale, una capacità sintetica di cogliere la situazione del tempo che travolge le (a volte giuste) cautele analitiche, spostando di colpo lo scenario filosofico-politico. Se in Impero gli americani hanno riconosciuto, a ragione o a torto, il profilo espansivo dell’età di Clinton, in Stato di eccezione di Agamben hanno trovato quello, inquietante, dell’epoca di Bush.
A questo primo elemento ne va subito aggiunto un altro, anch’esso radicato nella nostra tradizione – vale a dire la tendenza a rompere gli steccati disciplinari con una inventività semantica assente in altre culture, irrigidite in ambiti specialistici senza contatto reciproco. Il successo mondiale di Umberto Eco, filosofo, semiologo, romanziere va interpretato anche in questa chiave transdisciplinare. Ciò vale, altrimenti, pure per il cosiddetto “pensiero debole”, esportato fuori Italia soprattutto da Gianni Vattimo, capace di oltrepassare gli steccati dell’Accademia in direzioni molteplici che vanno dall’estetica a una certa teologia secolare, passando per gli studi queer e di genere. Come del resto è accaduto al femminismo italiano, conosciuto ed apprezzato in America soprattutto per i lavori di Adriana Cavarero. E l’attenzione per il Nuovo Realismo, di cui è in uscita da Laterza il “Manifesto” di Maurizio Ferraris, si inquadra all’interno dello stesso fenomeno. Ciò si accompagna all’interesse che nell’ultimo quindicennio ha investito l’interpretazione italiana della biopolitica. Teorizzata da Michel Foucault alla metà degli anni Settanta, questa categoria, rimasta in latenza per circa un ventennio, ha dovuto aspettare alcune interpretazioni italiane per conoscere una fortuna internazionale senza precedenti.
Alla sua origine, e con tutte le riserve che si possono legittimamente avanzare nei suoi confronti, vi è una singolare attitudine a coniugare uno sguardo radicale sull’attualità con paradigmi di portata generale, a partire da quelli di vita biologica e di natura umana nel loro rapporto ambivalente con il potere. Ancora una volta questo passaggio teoretico ha risposto a un mutamento profondo nella esperienza contemporanea, vale a dire alla rottura, ormai consumata, delle paratie che a lungo hanno separato scienze umane e scienze naturali, teoria e prassi, logica e storia. Se ci si riflette, il concetto di biopolitica è stato forse il primo a saldare, nel suo stesso nome, una frattura che ha percorso l’intero sapere occidentale.
Ma c’è ancora un punto da mettere in risalto, che riguarda il rapporto tra sapere e potere. Il pensiero italiano, fin da sempre, ha avuto una relazione tesa e agitata col potere, politico ed ecclesiastico. Machiavelli, come già Dante, è stato esiliato, Bruno bruciato, Galileo processato, Campanella imprigionato. Ma ancora nel Novecento, Croce si è opposto al regime, mentre Gramsci e Gentile, ai lati opposti della stessa barricata, hanno dato la vita per la propria filosofia. Ciò spiega che proprio nella fase forse più opaca della nostra recente storia politica, la filosofia italiana abbia prodotto alcuni dei suoi frutti migliori. Quello italiano, più che del potere, è un pensiero della resistenza. Non a caso uno dei filoni su cui oggi si concentra la curiosità degli scholars americani è quello operaista, originato dal volume Operai e capitale di Mario Tronti. Naturalmente ciò che in tale linea di pensiero ancora coinvolge non è la strategia per una classe operaia scomparsa in quanto tale, o profondamente mutata, da tempo. Quella che vi cercano gli studenti americani, ma anche i movimenti di protesta che riempiono le piazze di mezzo mondo, è una teoria della soggettività politica orientata al conflitto. In un mondo sempre più diviso tra poveri e ricchi e sempre più bloccato nelle griglie dell’economia finanziaria, la filosofia italiana insegna da cinquecento anni che l’ordine non esclude il conflitto e che anzi solo quest’ultimo, se trattenuto nei confini della politica, può conferire ad essa la vitalità che sembra aver smarrito. Del resto già altre volte è accaduto di verificare una singolare asimmetria tra prassi politica effettiva e pensiero sulla politica: proprio quando, come nell’Italia di questi tempi, la politica sembra tacere, sovrastata dall’intreccio di tecnica ed economia, la filosofia politica sembra ritrovare, anche per reazione, uno slancio creativo che in altri momenti le manca.
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