Il libro, visto dall’esterno
Parlare di copertine di libri in questo momento di crisi e di profonde trasformazioni tecnologiche per l’editoria sembra essere un’attività diffusa e confusa. Farlo seguendo un filo logico è praticamente impossibile. Giudizi estetici sono inopportuni. Un modo ragionevole è verificare la coerenza tra il progetto culturale dell’editore e l’immagine della copertina ma nelle librerie i ripiani zeppi di pile di aspiranti accattivanti best seller ci dicono a colpo d’occhio che il progetto principale dell’editoria è quello di vendere i libri. La copertina è packaging e come tale appartiene a una strategia di marketing: dunque non deve essere coerente a un progetto culturale ma fare parte di un mix che si spera possa portare il libro nei primi posti delle classifiche di vendita.
Manca spesso negli editori un progetto culturale di riferimento, e ai grafici che in molti casi sono soprattutto attenti all’apparenza e/o al loro ego (usando una nota espressione di Roberto Calasso) non resta che provare e proporre soluzioni formali seducenti. La copertina concorre alla generale cacofonia.
Pagine bianche
Nella piccola libreria all’incrocio qui vicino, sul banco delle novità che aspirano a diventare best seller, dal magma uniforme e indistinguibile di Mondadori, Ponte alle Grazie, Neri Pozza, Fazi, Newton Compton, Longanesi emerge Sandro Veronesi, Baci Scagliati Altrove, Fandango Libri 2011, progetto grafico di Federico Mauro. Sulla copertina bianca solo testo in nero e il marchio dell’editore in rosso e nero. La font richiama quella delle macchine da scrivere, forse l’American Typewriter disegnata da Joel Kaden e Tony Stan nel 1974, i testi, autore e titolo, sono piuttosto neri e serrati e il nero è esaltato dalla leggera ombra del rilievo. Sembrerebbe una copertina senza immagini che evita di suggerire alcunché sul contenuto del libro e si limita all’enunciazione delle informazioni fondamentali, ma non è così: la scelta della font, il kerning stretto della composizione, il rilievo, il tipo di goffratura del cartoncino sono cosa diversa dalla asciutta informazione di un frontespizio. Federico Mauro, art director di Fandango: «Questa immagine dei fogli scritti a macchina è venuta fuori nel modo più semplice e spontaneo possibile. L’ho fatta di getto: un intervento a ‘gamba tesa’. Mi piaceva suggerire un concetto di ‘manualità ‘, realizzare un raccordo visivo ma anche più complessivo… tattile. La carta ricorda la porosità dei fogli dattiloscritti. Il carattere ha un effetto pulito ma a ben guardare presenta anche delle sbavature come di inchiostro fresco e le scritte sono ‘punzonate’ con un effetto ‘rilievo’ a simulare proprio la ‘battitura’ del foglio a macchina. Anche la stessa fascetta che circonda il libro ricorda il ‘nastro’ d’inchiostro delle macchine da scrivere».
L’idea della pagina bianca è alla base anche della campagna virale realizzata per il libro: «Abbiamo iniziato a far circolare delle immagini che erano sostanzialmente delle pagine bianche porose con delle frasi scritte a macchina tratte dai racconti del libro. Gli utenti commentavano e condividevano le frasi senza sapere di che libro si trattasse e di quale autore. Poi abbiamo utilizzato la stessa tecnica per mostrare titolo e nome dell’autore. A quel punto, scritta a macchina, si è palesata anche la copertina del romanzo». Una copertina che non evita suggestioni ma nella quale la scrittura è al centro delle cose.
Le annotazioni di Pamuk
Alla ricerca della copertina più bella per Il silenzio dell’onda, di Gianrico Carofiglio, Rizzoli ha organizzato un concorso internazionale tra grafici. Vincitrice Francesca Leoneschi dello studio the World of DOT. Sul libro, edito nella collana La scala (la mitica Scala degli anni ’60 nata con le copertine telate rigide di Mario Dagrada), un’onda. Qualcosa ci ricorda la quinta delle Nove annotazioni sulle copertine dei libri in Altri colori (Einaudi, 2008), dove Orhan Pamuk dice: «Il grafico che progetta rossa e nera la copertina del Rosso e il nero… un castello sul Castello non dà certo l’impressione di voler rispettare il testo: suggerisce semmai quella di non averlo letto». Asserzione discutibile, come altre di quell’elenco. Un oggetto, un segno semplice può essere molto utile per ricordare un libro, come dice lo stesso Pamuk nella seconda annotazione: «Tutte le nostre grandi letture finiscono per confondersi nei nostri ricordi con le copertine dei libri».
Thomas Bernhard (1931-1989) è pubblicato in Italia da Adelphi nella ben nota elegante classica veste con immagini, scelte accuratamente, centrate e incorniciate su superfici opache, colori discreti (salvo rare eccezioni, ad esempio il rosa shocking per Alan Bennett), ricordano pareti borghesi con un quadro al centro. Una veste così classica e tradizionale suggerirebbe che siamo di fronte a un autore classico, un tranquillo autore borghese, e lascio ai letterati il compito di dire se Bernhard lo sia. Ma l’immagine delle edizioni Adelphi costante e pressoché uniforme a scale diverse nelle diverse collane è quella, ed è tra le poche che corrispondono a un progetto e a una firma, quella del suo presidente, Roberto Calasso, che per i lettori è garante delle scelte. A quanto racconta Calasso, Bernhard sembra aver gradito l’impianto tipografico di Adelphi, sia della copertina sia degli interni, tanto da suggerirlo, poche settimane prima della sua morte, come modello al suo editore austriaco Residenz. Eravamo però nel 1989 e l’immagine Adelphi è ancora precedente. Dura dal 1965, oggi quasi mezzo secolo. Random House ha pubblicato Bernhard nella collana Vintage International in una serie progettata da Eva Brandstà¶tter, una grafica di origine austriaca che vive a New York. Ecco cosa ha risposto alle mie domande: «Bernhard è una figura controversa. Ho progettato a partire dal 2006 l’intera serie di 11 volumi. Per la copertina mi sono ispirata alla tipografia del Werkstà¤tte e dell’espressionismo tedesco. Pensando ai vecchi caratteri in legno per manifesti ho progettato una font in due stili, una per i titoli e l’altra per le altre informazioni. Bernhard ha sempre voluto evocare una certa tensione che ho cercato di ricostruire creando angoli acuti e asimmetrie in ogni lettera e nei loro rapporti, nella parola e nella frase. Ho poggiato i testi su piani diversi dando alle composizioni uno strano senso di prospettiva. Niente di tranquillo e rassicurante. Proprio come i caratteri dei personaggi».
Opportunità digitali
D’altra parte progettare una gabbia o griglia tipografica e inserire un’immagine diversa per ogni titolo è più o meno quello che anche oggi propongono molti grafici e fanno molti editori. Leggendaria e ben nota la gabbia di Robert Marber scelta da Germano Facetti nel 1962 (sempre mezzo secolo fa) per la collana Crime della Penguin. Gabbie e modalità di definizione dell’identità interessanti per l’editore canadese Les Allusifs. Copertine progettate, dalla nascita della casa editrice nel 2001 e fino al 2007, da Lyne Lefebvre evitando schemi rigidi. Ne sono elementi fondamentali un cerchio e il trattamento delle foto di Sérge Clement alle quali vengono sottratti i mezzi toni. I colori e la geometria dell’insieme rinviano chiaramente alla grafica costruttivista. L’ispirazione e gli elementi di base restano simili ma in composizioni ancora più libere nel lavoro poi fatto dallo studio Paprika e dall’illustratore Alain Pilon. Per la collana dei gialli, progettata da Paprika, l’editore ha sentito l’esigenza di una comunicazione più diretta pressoché inequivocabile arricchendo le composizioni tipografiche della copertina con macchie di sangue variamente composte.
Ed eccoci al digitale: «…con la terra che trema sotto di loro, non è strano che gli editori, un piede nel passato traballante e l’altro in cerca di un terreno solido in un futuro incerto, esitino a cogliere l’opportunità che la digitalizzazione gli offre per ripristinare, espandere e promuovere il loro catalogo verso un mercato globale decentralizzato. Le nuove tecnologie, comunque, non chiedono il permesso. Sono, per usare l’inflazionata definizione di Schumpeter, dirompenti e non negoziabili quanto un terremoto… questa tecnologia che offre un ampio mercato multilingua, una scelta praticamente illimitata di titoli, spodesterà il sistema gutenberghiano con o senza la partecipazione dei suoi esecutori attuali».
Così, dal sito di «Critica sociale», Jason Epstein che in verità si riferisce soprattutto al print on demand e al sistema Espresso Book Machine. Le sue considerazioni sono buone anche per gli ebook e sono più che allarmanti per «l’affettato mondo dell’editoria che ha già i nervi a fior di pelle» come dice ancora Jason Epstein, non certo io che non potrei permettermelo.
Verso il frontespizio
Limitiamoci però al nostro tema e parliamo di ebook e copertine. A Marco Ghezzi, uno dei fondatori di Book Republic fra le principali librerie on line italiane, chiedo se le copertine servono ancora: «Certo servono ancora ad attrarre il lettore, come nelle librerie reali, ma servono molto meno perché la copertina di un ebook è molto spesso ridotta a dimensioni così piccole da non consentire grandi elaborazioni grafiche. Per questo molti editori digitali hanno scelto la strada di copertine semplici con campiture piene e lettering ampio, perché la maggioranza dei lettori usa dispositivi a inchiostro elettronico la cui tecnologia prevede solo 16 toni di grigio e la scelta del colore delle campiture per il fondo dove poggia il testo è molto delicata, certe tonalità per la ridotta disponibilità di toni del grigio non vengono rappresentate o si confondono».
Resta l’importanza della copertina per le pagine di presentazione e vendita dei libri sui siti delle librerie on line ma lì, più che in una libreria tradizionale, hanno ancora più importanza altri elementi di comunicazione curati spesso dallo stesso libraio: banner, composizione complessiva, facilità di accesso, proposte economiche, sconti, aggiornamenti. «Una volta acquistato l’ebook le copertine su molti dispositivi vengono sistemate su una specie di scaffale. Un modo intuitivo per il lettore ‘di organizzare’ la propria libreria digitale». Sono disposte di piatto e non di costa come in tutte le librerie nelle nostre case e così l’attenzione con la quale molti editori e grafici curano i dorsi dei propri libri risulta, perlomeno per la loro utilizzazione su ebook, superflua.
Ma vediamo un po’ anche quale è il destino negli ebook di altri elementi che spesso definiscono in modo inequivocabile l’identità dell’editore, e cioè la font e la composizione tipografica degli interni. Che fine fanno, per fare un esempio, il mitico Garamond di Einaudi o il Baskerville di Adelphi? «Purtroppo» dice ancora Marco Ghezzi «al momento non c’è la certezza di poter controllare il risultato tipografico dei propri ebook. Infatti se diversi device consentono di ‘embeddare’ le font con cui è stato composto il libro, non c’è la certezza che esse vengano usate, che vengano rispettate le indicazioni di crenatura e interlinea e così via. Temo che il carattere tipografico, almeno nel prossimo futuro, perderà l’importanza che ha rivestito per molti anni per gli editori (e i lettori). Forse la prossima ondata di device, migliorando la qualità del software e dello schermo consentirà di riportare in primo piano l’importanza della font. Non va però dimenticato che il lettore digitale ha la possibilità di modificare liberamente le caratteristiche del testo, aumentando corpo e interlinea, cambiando la font e intervenendo sulla luminosità . Il contenuto, negli ebook, ha decisamente il sopravvento sulla forma».
Millerighe in allegato
Torniamo ai libri, al loro profumo, alla carta, al cartoncino, agli inchiostri, piaceri feticistici che comunque nel 2011, secondo l’Istat, hanno affascinato 723.000 lettori in meno, e torniamo all’idea che l’immagine di un libro debba corrispondere a un progetto editoriale e dunque presumibilmente culturale. Tra le poche iniziative editoriali che rispondono necessariamente a questo requisito fondamentale ci sono le collane allegate ai quotidiani.
Piccoli volumi di narrativa molto economici sono usciti con «il Sole 24 Ore», il «Corriere della sera», «la Repubblica». I loro programmi sono chiari e altrettanto chiara e incisiva è la loro veste grafica, che non avendo la necessità di gareggiare nel bailamme di una libreria può concedersi soluzioni originali e sofisticate. Francesca Leoneschi di the World of DOT firma la collana per il «Corriere della sera» (racconti italiani inediti): i cartoncini millerighe ricordano una carta fatta a mano, stampa con un solo colore intenso, autore, titolo e editore in negativo in corpo 20 – sarebbe piccolo in una libreria – e, nello spazio rimanente, scavato con un punzone, l’incipit in un blocchetto di testo maiuscolo in un carattere lineare, il Leitura Sans del portoghese Dino dos Santos.
Isabella Maoloni per la collana della «Repubblica» (grandi della narrativa introdotti da scrittori) utilizza per tutti i volumi lo stesso impianto. Al centro, in alto, un campo rettangolare – che assomiglia all’etichetta di un vecchio quaderno e che grazie a un passaggio di serigrafia lucida trasparente si stacca dal fondo plastificato opaco -contiene il titolo, gli autori del testo e dell’introduzione, sul resto della copertina una texture in un colore diverso per ciascun volume. La composizione nella quale variano in modo sapiente i pieni e retinati su strisce bianche o di colore pieno e retinato dà all’intera raccolta una grande varietà , quasi un esercizio di basic design.
Marco Pennisi è l’autore dell’impianto di copertina dei Racconti d’Autore che escono allegati al «Sole 24 Ore» della domenica, un cartoncino opaco e vellutato, piacevole al tatto, dove i testi essenziali si poggiano sulle grandi immagini fotografiche lungo un allineamento verticale nel quale solo il titolo scorre a cercare il maggior contrasto con lo sfondo, il colore della fascia verticale in costa, del dorso e delle bandelle è sempre il medesimo grigio. Riferimento imprescindibile per gli allegati ai quotidiani restano i libri usciti con «l’Unità » dal 1992 al 1997 con il progetto grafico di Giovanni Lussu che ha raccontato l’esperienza in Libri quotidiani, Stampa Alternativa & Graffiti 2003.
Ancora il bianco
Bianca è la copertina della piccola serie My Penguin nella quale l’editore dà la possibilità al lettore di disegnare lui la sua copertina. Le etichette con titolo, autore e richiami pubblicitari vanno via togliendo la cellofanatura, il lettore finalmente graphic designer fa la sua opera e la mostra nella galleria che Penguin ha predisposto. Bianca, testi neri, la copertina della Collezione di Poesia di Einaudi. Solo autore, titolo, editore e il testo di una poesia che, separato da un filo nero, occupa lo spazio di un’immagine superflua. Quel filo nero che secondo la testimonianza di Roberto Cerati fu tracciato da Munari in una delle leggendarie riunioni del mercoledì.
Suggestive, candide soluzioni radicali. Variegata, labirintica e inestricabile questione, quella delle copertine dei libri.
Come è nata
la griglia di Marber
Nello spazio qui sopra è riprodotta la «griglia di Marber». Ecco come è nata, nelle parole di Phil Baines, autore di «Penguin by Design. A Cover Story 1936-2005» (Penguin/Allen Lane, 2005; testo tradotto per «Progetto grafico», n. 7, gennaio 2006): «Nel 1962 Germano Facetti, art director della Penguin, commissionò a tre designer il progetto di una nuova griglia per le copertine della collana Crime: dovevano prevedere un’area per le illustrazioni o per la grafica pur mantenendo una chiara e forte impronta tipografica. Fu scelta la soluzione di Robert Marber, che cominciò a illustrare una sessantina di titoli della serie, mentre i restanti furono affidati dallo stesso Facetti ad altri progettisti. Una serie di linee orizzontali separavano il nome e il marchio dell’editore dal titolo e dal nome dell’autore. Il carattere utilizzato fu Intertype Standard, una variante del Bertold’s Akzidenz Grotesk, che richiamava molto la grafica svizzera. Marber usò questo carattere per molti anni preferendo le curve e i pesi a quelli dell’Helvetica, che stava cominciando a diffondersi in Inghilterra proprio quegli anni».
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