IL GOVERNO MONTI TRA DESTRA E SINISTRA

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Oggi però risulta chiaro che il vero problema è l’Europa, anzi l’Europa tedesca perché è la Germania a dare il “la” a tutta l’orchestra delle istituzioni europee. Il presidente del Consiglio, Herman Van Rompuy, il presidente della Commissione Manuel Barroso, i commissari, i direttori generali e i loro vice, i segretari del Parlamento di Strasburgo e i funzionari delle commissioni parlamentari: una vasta e potente burocrazia plurinazionale dove i posti-chiave sono in mano a tedeschi e francesi e ai loro stretti alleati e dove le funzioni politiche sono esercitate da una tecnostruttura che ha gli occhi costantemente rivolti a Berlino. 
Il voto all’unanimità , che è ancora la regola per le decisioni più importanti dell’Unione, costituisce una delle varie armi a disposizione della Germania. È vero che esso conferisce un diritto di veto a tutti i Paesi dell’Unione, ma quei veti possono essere controllati, ammorbiditi, aggirati quando a porli sia uno degli altri 26 Paesi membri; ma quando è la Cancelliera tedesca a dire “no”, quel no è insuperabile perché – tutti ormai l’hanno capito – è Berlino che fa la legge. Anche la Francia infatti ha ormai piegato la testa riconoscendo d’esser figlia di un Dio minore.
La Germania è il Paese europeo più ricco, più produttivo, più innovativo dell’Unione; è il centro geopolitico del continente ed è ormai l’alleato privilegiato degli Stati Uniti. Questo è lo stato dei fatti anche se formalmente non appare, anzi non appariva fino a qualche anno fa, ma adesso l’egemonia tedesca sulla politica economica dell’intero Continente è conclamata. Purtroppo si tratta d’una politica ottusamente deflazionistica, ottusamente “virtuosa”, ottusamente manichea e quindi socialmente crudele.
Per conservare ed accrescere la sua egemonia la Germania rifiuta o rallenta il percorso che dovrebbe portarci alla nascita di un’Europa federale come previsto dallo spirito dei trattati fondativi della Comunità . Rifiuta che l’Europa sia rappresentata da una sola voce e che un suo rappresentante (dell’Europa) entri a far parte come membro permanente nel Consiglio di sicurezza dell’Onu. Rifiuta che lo stesso avvenga nel Fondo monetario (Fmi) e nelle altre istituzioni internazionali. Rifiuta infine che la Banca centrale europea abbia lo “status” delle Banche centrali di tutto il mondo. 
La Germania vuole invece che l’Unione rimanga a mezza strada tra una semplice Confederazione di libero scambio e un vero Stato con elezioni popolari dirette e organi federali. 
A mezza strada significa una struttura intergovernativa dove i governi più forti fanno la legge e dove gli Stati nazionali mantengano piena autonomia salvo alcuni spicchi di sovranità  trasferiti all’Unione (vedi il rigorismo economico) se quel trasferimento rafforza l’egemonia dello Stato-guida.
La situazione attuale si può dunque riassumere così: la Germania impedisce che ai cittadini degli Stati nazionali siano riconosciuti tutti i diritti che una piena cittadinanza europea comporta. Questo è il problema europeo.
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Da qualche mese però si è aperta una falla nella carena dell’Europa tedesca. L’hanno aperta Mario Monti da un lato e Mario Draghi dall’altro. Non credo che ci sia un accordo tra loro, ma una convergenza oggettiva la si vede senza bisogno di lenti d’ingrandimento. 
L’obiettivo di Monti è di far tornare l’Italia in prima fila sulla scena della politica europea e di favorire ulteriori cessioni di sovranità  dagli Stati nazionali alle istituzioni dell’Unione. Il documento firmato da Monti e da Cameron, dalla Spagna e dalla Polonia, dall’Olanda, dalla Repubblica Ceca e dagli Stati Baltici, che chiede di concentrare nella Commissione europea la gestione della concorrenza e delle regole che la tutelino soprattutto nel settore dei servizi fin qui trascurato, marcia in quella direzione. Non a caso Germania e Francia per ora non hanno aderito a quell’iniziativa. I “media” dal canto loro l’hanno sottovalutata sebbene essa possieda una forte carica di liberalizzazione intra-europea, mirata non più al rigore già  acquisito ma alla crescita. Si tratta in realtà  di un’iniziativa contro le “lobby” a livello continentale.
Monti conosce bene quel tema, fa parte della sua lunga esperienza di commissario dell’Unione. Non è un caso che la sua iniziativa europea avvenga in sintonia con il decreto sulle liberalizzazioni in discussione nel Parlamento italiano e non è un caso che proprio l’altro ieri il presidente del Consiglio abbia deciso di disconoscere tutti gli emendamenti che le lobby hanno tentato di introdurre nel decreto attraverso la compiacenza dei partiti di riferimento.
Il presidente della Repubblica – che segue con la massima attenzione quanto sta accadendo su questo tema sia in Italia sia in Europa – è intervenuto giovedì scorso contro la pioggia di emendamenti eterogenei sul decreto delle semplificazioni ed ha contemporaneamente ricordato l’importanza della politica di liberalizzazioni. Anche il Partito democratico s’è schierato sullo stesso terreno che del resto fu proprio Bersani ad anticipare come ministro dell’Industria all’epoca del governo Prodi.
Mario Draghi batte anche lui su quel tasto ad ogni sua uscita pubblica. I veri nodi strategici di questa politica non sono i tassisti, le farmacie e neppure gli ordini professionali. I veri nodi da sciogliere sono i costi dell’energia, la rendita metanifera dell’Eni, l’intreccio degli interessi tra le banche, le fondazioni, le compagnie d’assicurazione. E anche, ovviamente, il mercato del lavoro.
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La battaglia delle liberalizzazioni non ha niente a che vedere con l’ideologia liberista. Soltanto una sinistra becera e aggrappata alle mitologie e alle ideologie del secolo scorso può identificare la lotta contro le corporazioni e contro gli intrecci d’interesse con il thatcherismo e il reaganismo.
Il capitalismo democratico e la politica sociale di mercato furono l’esatto contrario del liberismo selvaggio che porta sempre nel suo ventre l’oligopolio e il monopolio. L’economia globale ha riaperto questo problema ponendolo su basi del tutto nuove. Il capitalismo democratico rese possibile l’incontro con il riformismo socialista nel felice trentennio che va dal 1945 alla metà  degli anni Settanta. Ora quel modello va ricostruito su nuove basi.
Nuovo modello ma identici obiettivi. Per questo è un’assurdità  porre la domanda se Mario Monti sia di destra o di sinistra. Monti è un riformista e un innovatore. Ci può essere una destra riformista e innovatrice (la Destra storica lo fu) e una sinistra riformista e innovatrice e così pure un sindacato e un’imprenditoria con quei medesimi obiettivi.
Qualche nome del nostro passato, tanto per avere concreti riferimenti? Li ho già  fatti in altre occasioni quei nomi ma forse è bene ripetersi per chi non ha orecchi per ascoltare o cervello per intendere: Luigi Einaudi, Ezio Varoni, Ugo La Malfa, Bruno Visentini, Raffaele Mattioli, Altiero Spinelli, Riccardo Lombardi, Antonio Giolitti, Luciano Lama, Pasquale Saraceno, Nino Andreatta, Carlo Azeglio Ciampi. L’elenco è assai più lungo, per fortuna c’è stata e c’è ancora un’Italia perbene, responsabile e consapevole, che antepone l’interesse generale a tutti gli altri. Credo che i nostri due Mario facciano parte di questo elenco.

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La riforma del mercato del lavoro fa parte della politica di liberalizzazione la quale non si limita a liberalizzare le merci e i servizi. Questa è la parte più facile ed è già  in gran parte avvenuta in Europa con la nascita della Comunità  e i trattati di Roma del 1957. Può e dev’essere migliorata e completata, ma il nodo da sciogliere ora è un altro e riguarda le persone.
Il mercato del lavoro non è uno spazio unitario ma uno spazio segmentato. C’è un mercato del Sud e uno del Nord, un mercato del lavoro per gli uomini e uno per le donne, uno per i giovani e uno per gli anziani, uno a tempo indeterminato e uno a tempo determinato, uno alla luce del sole e uno sommerso, uno per le piccole imprese e uno per le grandi, uno per i privati e uno per lo Stato e gli enti pubblici, uno per i cittadini e uno per gli immigrati. Infine ci sono gli occupati, i sotto-occupati e i disoccupati e ci sono tutele sociali per alcuni e nessuna tutela per altri.
Si può dire che il mercato del lavoro in Italia in queste condizioni di intensa segmentazione fatta di veri e propri compartimenti-stagno non comunicanti tra loro, sia un mercato libero dove liberamente si confrontano la domanda e l’offerta di lavoro? Certamente no e lo sanno benissimo le rappresentanze sindacali dei lavoratori e quelle degli imprenditori. Un vero mercato libero e unitario non ci sarà  mai perché alcune segmentazioni dipendono dalle diverse tipologie di lavoro; ma l’intensità  delle segmentazioni attuali è irrazionale e insostenibile, impastata da privilegi e da rendite di posizione.
Un governo che voglia modernizzare la società  e accrescerne la produttività  puntando sulla liberalizzazione del sistema ha dunque tra i primi obiettivi quello di riformare il mercato del lavoro, gli strumenti contrattuali che ne costituiscono le nervature, i meccanismi di tutela sociale e la parità  di accesso e di recesso privilegiando i settori più sfavoriti e più deboli, cioè i giovani e le donne. 
In un quadro di queste dimensioni la discussione sull’articolo 18 dovrebbe essere del tutto marginale. Forse simbolica, ma nella sostanza marginale sia per il governo sia per le parti sociali riunite intorno a quel tavolo. Quell’articolo sta per tutela della giusta causa. È evidente a tutti che la giusta causa in un Paese moderno e civile è un canone da rispettare. Non si può licenziare un lavoratore solo perché è antipatico al padrone; tanto meno per le sue opinioni o per il colore della pelle. Ma si deve poter licenziare se il lavoratore non rispetta i ritmi di lavoro previsti dal contratto, se rompe la disciplina che il contratto prevede, se l’azienda deve ridurre la produzione per ragioni economiche dimostrate.
Questo complesso di elementi che configura sia l’accesso al lavoro sia il recesso, sono tutelabili in vari modi. L’articolo 18 è alquanto generico ed ha generato una giurisprudenza discutibile e discussa. Può esser sostituito da un testo diverso oppure modificato oppure lasciato tal quale chiarendo meglio la giurisprudenza. In ogni caso – come giustamente ha detto Anna Finocchiaro in una pubblica e recente intervista – le norme che regolano l’entrata e l’uscita dal lavoro vanno estese a tutte le aziende e a tutti i lavoratori mentre l’articolo 18 restringe la tutela agli occupati in aziende che occupano più di 15 dipendenti. I dipendenti di imprese al di sotto di quella soglia sono privi di tutela e questo non è ammissibile.
Il mercato del lavoro non è mai stato così frastagliato. Lo è da vent’anni in qua. Bloccare l’orologio agli anni Ottanta dell’altro secolo è una richiesta irricevibile e se questo fosse lo spirito del sindacato bisognerebbe concluderne che esso è fuori dal tempo; ma ancor più fuori dal tempo sono coloro che in Confindustria o in altre consimili associazioni vorrebbero tornare all’epoca del “padrone delle ferriere”. 
Le basi per un accordo ci sono perché l’obiettivo comune non può che essere liberalizzazioni moderne, coesione sociale e tutele per i più deboli. 

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Due parole sul governo tecnico e quello politico. In una democrazia parlamentare questa distinzione non può esistere, ogni governo deve avere la fiducia del Parlamento e perciò tutti i governi sono politici.
Ci sono invece vari modi per scegliere il Capo del governo. Lo può scegliere direttamente il popolo, lo possono scegliere i partiti e i loro gruppi parlamentari, lo può scegliere il Capo dello Stato. Nel primo caso – scelta popolare diretta – siamo però fuori dalla democrazia parlamentare. Nel secondo e nel terzo caso ci siamo dentro.
La nostra Costituzione prevede il secondo e il terzo caso. Durante la prima Repubblica si praticò la scelta affidata ai partiti e ratificata dal presidente della Repubblica. Nella seconda Repubblica il sistema si avvicinò a quello presidenziale e si distaccò notevolmente da quello parlamentare.
Complessivamente sono stati molto rari i casi nei quali è stato rispettato il dettato costituzionale. Avvenne durante il settennato di Luigi Einaudi, un paio di volte in quello di Scalfaro (l’incarico a Ciampi e l’incarico a Dini) e con la nomina di Monti e del suo governo da parte di Giorgio Napolitano.
Chi continua a sostenere che il governo Monti sia soltanto “tecnico” e dettato dall’emergenza, sostiene una cosa giusta (l’emergenza) e un’altra falsa (il governo dei tecnici). A mio avviso il meccanismo adottato da Napolitano è quello che meglio corrisponde al dettato costituzionale e deve dunque sopravvivere al governo Monti diventando norma stabile visto che è l’unica prevista in Costituzione. 
Nel frattempo il governo governi. L’economia soprattutto, perché l’emergenza lo richiede, ma anche tutti gli altri temi e problemi che riguardano la vita del paese e del suo futuro.

Post scriptum. Il processo Mills-Berlusconi si è concluso con la prescrizione, decisa in sentenza dal Tribunale di Milano. È prassi consolidata che se l’imputato è giudicato innocente, il dispositivo della sentenza ne dia atto. Se invece è giudicato colpevole o se seriamente indiziato di colpevolezza, ma sia caduto in prescrizione, la sentenza applichi la prescrizione nel dispositivo e parli della colpevolezza nelle motivazioni. Attendiamo dunque di leggerle.
La difesa dell’imputato sembra orientata ad appellarsi contro le motivazioni della sentenza se esse accogliessero la tesi della colpevolezza. È evidente tuttavia che non ci si può appellare contro le motivazioni se non si fa formale rifiuto della prescrizione. Se questo fosse la decisione della difesa e dell’imputato prescritto, essa sarebbe altamente apprezzabile e noi saremmo pronti a riconoscerlo, ma qualche cosa ci fa pensare che questo non avverrà .


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