Il boom di Vintage Spa l’industria della nostalgia

by Editore | 6 Febbraio 2012 4:30

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Si scivola dappertutto giù nel precipizio del Novecento, e pensare che pareva tanto brutto e se ne era usciti con molto sollievo. Ma adesso prevale (e fa vendere) quella cosa un po’ funerea chiamata – all’antica – rimembranza; e persino in televisione rispuntano addirittura gli anni ’10 nel meraviglioso sceneggiato Downton Abbey (già  circola su Internet la seconda parte). Al cinema si riscoprono gli anni ’80 di Iron Lady e si resta male perché sembra che da allora, dai tempi della deprecata Margaret Thatcher, ben poco sia cambiato (tasse, scioperi, disoccupazione, e non è mancata neppure la guerra, sia pure chiamata missione di pace). Nella lirica si spasima per il ritorno alla Scala dell’edizione 1963 dell’Aida zeffirelliana, a teatro Dario Fo e Franca Rame recitano il loro Mistero buffo del 1969, ovunque si propongono devote mostre di Arte Povera fine anni ’60 mentre la moda, sempre appesa al passato, essendo la sua specialità  attuale quella di non sapersi inventare un futuro, arranca in direzione haute couture, rivestendo l’inarrestabile crisi col lusso anni ’50. Tra i libri poi un diluvio, cominciando dal ritorno nella saggistica dell’epocale La mistica della femminilità , che agli inizi degli anni ’60 mandò a monte, appunto, quella noiosissima vita femminile; e tra i romanzi, c’è di tutto, per signore anni ‘40 il colossale Amber, per i giallisti anni ‘50 i racconti di Chandler, e poi ci saranno Bassani, Testori, Bukowski, e le fiabe anni 20 di Jean Giono per bambini all’antica e per ghiottoni d’epoca, nella frenesia culinaria che ha sostituito quella sessuale, Mangiare da re, il celebre ricettario fine anni 60 di Bergese. Quelli che sono stati spesso tempi orribili, misteriosamente sono diventati una specie di paradiso lontano, cui ricorrere a man bassa, però il problema è che non sono solo i vecchi a ricordare, ‘ai miei tempi…’, ma lo sono soprattutto i giovani, e tra loro i cosiddetti creativi, che non hanno memoria e tutto gli appare nuovissimo, addirittura d’avanguardia. D’altra parte, esiste il presente? Un presente che duri abbastanza per poterlo riconoscere e che si riesca a percepire, ricostruire, dargli un senso, immerso come è nella palude vischiosa e immobile dell’eccesso di informazione e della sua oceanica ripetitività ? L’industria del consumo culturale o semplicemente dei consumi (siamo tornati anche alle cicerchie, legume poverissimo scomparso da anni ed ora di gran moda) ha bisogno di continuare ad arricchirsi, a sorprendere, a stordire, a ingolosire. E se il presente è misero, o comunque di difficile interpretazione, perché non andare sul sicuro e rivolgersi a ciò che è già  stato interpretato, per reinterpretarlo senza gran fatica? Si ricorre agli eventi e alla merce e al pensiero e all’estetica dei decenni del secolo scorso per affanno commerciale, per ambigua nostalgia o anche perché raccontare l’inquietudine del presente è impossibile, oppure nessuno ha più voglia di farlo o sa farlo bene. Prendiamo i libri: vanno ad ondate e per esempio quella massiccia delle giovani donne che raccontano ancora lacrimosamente o ironicamente i fastidi della condizione femminile e l’inadeguatezza di quella maschile, dicono tutto ciò che è già  stato detto da quarant’anni e oltre, quindi a che pro scriverne e stamparne di nuovi? E è vero che le giovani indignado italiane che vanno in tivu sono molto carine, ma parlano come la piccola Lisa Simpson e dicono cose fuori tempo, mentre le femministe anni ’70 erano più disordinate ma dicevano e scrivevano cose veramente nuove. Raccontare oggi l’Italia politica di allora, o ricuperarne le parole ben diverse di destra e di sinistra e i tragici eventi come il terrorismo, pare più facile e consolatorio di riuscire a districarsi dal martellante accavallarsi di personaggi orribili, cialtroni, criminali e al minimo inutili. Sono montagne i libri che ci raccontano l’Italia brutta degli ultimi vent’anni, e che proprio per eccesso di abbondanza alla fine si cancellano a vicenda. Certo era brutta anche l’Italia del Novecento, ma ce ne siamo dimenticati: il fatto è che allora si era certi che sarebbe migliorata, adesso meno. E’ forse per trovare rassicurazione, per ritrovare la fiducia ancora incerta, che si torna indietro, come se la vera nostalgia fosse quella della speranza.

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