Il 99,76% dei serbi: «No all’autorità  di Pristina»

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Che hanno votato, martedì e mercoledì scorsi, al 99,76% con un secco no e una partecipazione all’80% (nelle elezioni in Kosovo ha finora votato solo il 43% dei kosovaro-albanesi). Un referendum che per il ministro degli esteri russo Serghei Lavrov «non va ignorato». E che, nel disastro dell’Europa, è marginale ma parla della crisi europea e solleva, in sfida all’Unione europea e allo stesso governo di Belgrado, il bubbone-Kosovo, l’unico stato nato dai raid aerei «umanitari» dell’Alleanza atlantica.
Non a caso il referendum autoconvocato è avvenuto a quattro anni esatti dal 17 febbraio 2008, quando le autorità  kosovaro-albanesi di Pristina hanno autoproclamato l’indipendenza del Kosovo. In aperto disprezzo del diritto internazionale (anche se la Corte dell’Aja con parere però solo consultivo, dice che «il diritto è salvaguardato)». Perché venne fatto a pezzi il trattato di pace di Kumanovo che nel giugno 1999 poneva fine alla guerra della Nato contro l’ex Jugoslavia permettendo l’ingresso della truppe atlantiche in Kosovo ma riconoscendo altresì la sovranità  di Belgrado; una pace diventata Risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Da lì è nata la legittimità  della missione Unmik e dell’occupazione temporanea – sei anni – della Kfor-Nato. Sono stati invece dieci anni feroci nei quali, sotto gli occhi di Nato e Onu, si è scatenato il terrore contro la minoranza serba e rom rimasta, con migliaia di desaparesidos, centinaia di uccisioni, ben 150 monasteri e chiese ortodosse rase al suolo o incendiate. Quell’indipendenza poi ha spaccato la comunità  internazionale: il Consiglio di sicurezza dell’Onu non l’ha mai riconosciuta, Russia e Cina sono contrarie, divisa è anche l’Ue: Spagna, Grecia, Romania e Cipro nord non la riconoscono. Nonostante questo nel 2011 l’Ue ha inviato la missione Eulex per implementare le strutture dello «stato» del Kosovo. E arriviamo alla fine del 2011 e all’inizio del 2012 quando i serbi hanno inscenato proteste di massa, con centinaia di barricate, forti della loro consistenza numerica, a nord della città  di Kosovska Mitrovica. Con l’obiettivo di impedire la costruzione di una frontiera tra Kosovo e Serbia,per fermare l’invenzione di nuovi confini istituzionali per uno Stato che la Serbia non riconosce, anche perché sottrae il suo territorio. Esattamente l’intento contrario di Pristina, della Nato e dell’Eulex, che hanno schierato migliaia di militari e agenti. Ci sono stati violenti scontri, morti, feriti e arresti. Ma i serbi del nord-Kosovo resistono. Soprattutto ora.
Perché da gennaio si è resa sempre più evidente la volontà  dell’Ue e in particolare della Germania, per la quale si è pronunciata la stessa cancelliera Angela Merkel, di porre come condizione alla Serbia per avere lo status di paese aderente all’Ue, il riconoscimento da parte di Belgrado dell’indipendenza del Kosovo. Una condizione impossibile da accettare anche per la compagine filo-europea guidata in Serbia dal presidente Boris Tadic. E così devastante da essere giudicata «inopportuna» perfino dal neo ministro degli esteri italiano Giulio Terzi. Il referendum dei serbi del Kosovo ha reso «scoperti» i ricatti dell’integrazione europea alla Serbia, tanto che Tadic e il governo di Belgrado lo hanno condannato come «inutile, controproducente e dannoso». Eppure è stato lo stesso Boris Tadic che ha fatto inserire nella nuova Costituzione la frase che il Kosovo, terra fondativa della storia e della religione dei serbi, «è irrinunciabile». È quello che pensano tutti i serbi, non solo quelli del Kosovo. Tantopiù che ora l’Europa rischia di apparire come una mensa allargata per i poveri, soprattuto nel sud-est balcanico. E in primavera a Belgrado si vota.


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