Il 14 febbraio si avvicina: il re, i sauditi e Obama inquieti

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Fadhila al Mubarak è libera. Erano in 10mila ieri ad aspettare, fuori dal carcere, la famosa artista bahranita rimasta in cella per mesi perchè colpevole di ascoltare in macchina una canzone che invitava la popolazione a sollevarsi contro la famiglia reale degli al Khalifa.Un’accoglienza trionfale che si è trasformata in un giorno di festa dando coraggio e determinazione al movimento per le riforme e la democrazia – in gran parte formato dagli sciiti discriminati dalla minoranza sunnita al potere – che domenica scorsa ha avviato un programma di raduni e sit-in in sfida alla polizia e alle truppe saudite, entrate nel paese poco più di un anno fa per aiutare a reprimere la rivolta contro l’alleato monarca assoluto Hamad al Khalifa. 
Si avvicina il 14 febbraio, anniversario delle prime proteste contro il re in Piazza della Perla a Manama, disperse con violenza dalle forze di sicurezza grazie all’intervento decisivo dei mezzi corazzati sauditi. Furono giorni di sangue per questo piccolo arcipelago con meno di un milione di abitanti (di fatto un protettorato di Riyadh) che ospita la base della V Flotta americana ed è un alleato fondamentale di Washington nella guerra non dichiarata all’Iran. A re Hamad al Khalifa un anno fa è bastato affermare che le proteste dei suoi sudditi nascevano non dal suo potere assoluto e dalla negazione di diritti fondamentali bensì da un «complotto sciita iraniano» per ottenere il silenzio-assenso dell’amministrazione Obama. Per il presidente americano la «primavera araba» comincia a Tunisi e si ferma a Damasco, non riguarda le alleate monarchie del Golfo. 
La tensione cresce con il passare dei giorni. Ieri il ministro della difesa saudita, il principe Salman bin Abdul Aziz, ha avuto un lungo colloquio con il vice premier bahranita, Muhammed al Khalifa. Tema dell’incontro la protesta popolare a Manama che non accenna a placarsi. Nonostante la repressione e la recente minaccia di punizioni «esemplari» per coloro che «useranno violenza» contro le forze dell’ordine. «Chi oserà  soltanto sfiorare un agente di polizia andrà  in prigione per almeno 15 anni», ha tuonato il ministro della difesa. La monarchia denuncia la «violenza» dei dimostranti eppure persino una commissione d’inchiesta nominata dallo stesso governo ha riferito dell’uso «eccessivo» della forza da parte della polizia durante la repressione dello scorso anno in cui, ha aggiunto, sono morti 35 bahraniti. Le cifre reali della rivolta sono ben diverse. I centri per i diritti umani, locali e internazionali riferiscono di 1500 arresti, 45 morti (l’ultimo dei quali qualche giorno fa sotto tortura in carcere), 3000 allontanati dal posto di lavoro (tra i quali alcuni medici che avevano curato i feriti della rivolta) e 500 persone ancora in carcere. Amnesty International ha denunciato l’utilizzo massiccio, durante le manifestazioni, di un gas lacrimogeno particolarmente tossico per l’apparato respiratorio. Una attivista ha denunciato che «il regime cerca di alterare radicalmente la composizione della popolazione tramite la naturalizzazione massiccia di migliaia di stranieri». Sunniti.
Qualche giorno fa la commissione d’inchiesta è tornata al lavoro con il mandato di «valutare quanto il governo abbia fatto per lanciare le riforme». Ma negli esiti di questa nuova missione sono in pochi ad avere fiducia. Il re intanto porta avanti la sua strategia. Promette riforme che in realtà  sono finte. A gennaio aveva dichiarato di voler limitare il potere dell’esecutivo a vantaggio del parlamento. Un bluff, visto che l’assemblea rimane sotto il suo controllo. Ma tutto ciò importa fino ad un certo punto ai leader della protesta. Sanno che il re ha chiuso sin dall’inizio la possibilità  di un dialogo sulle riforme e che l’unica strada rimasta è quella di continuare la lotta. Le manifestazioni si stanno intensificando e nelle aree densamente abitate dagli sciiti, i comitati della rivolta ora riescono a tenere a distanza le forze di polizia. «Ritorneremo in Piazza della Perla. Presto saremo di nuovo nel luogo-simbolo della nostra battaglia», diceva domenica scorsa la poetessa Ayat al-Qormozi alla folla in un sobborgo di Manama. «Ritorneremo» rispondevano in migliaia.


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