Ignorata la bocciatura di Moody’s finisce l’era degli oracoli del rating
MILANO – La prima crisi dei subprime tolse le agenzie di rating dal piedistallo dei semidei. Quella attuale le porta verso il livello della strada: gli investitori le trascurano, i politici locali le apostrofano, quelli comunitari preparano una netta riforma per superare l’oligopolio privato S&p-Moody’s-Fitch, i banchieri centrali – tra cui Mario Draghi – chiedono di «ridurre il loro peso nelle nostre vite».
Tanto rapido discredito non era facile da prevedere ma è reale, complice la piega burocratico-ragionieristica che hanno preso le note sui rating. «Sanciscono l’esistente, mentre gli investitori sono già oltre, molto più veloci – dice un operatore -. Spesso, anzi, quando arriva il giudizio di agenzia, il mercato intuisce che è ora di fare il contrario». La dinamica delle emissioni pubbliche italiane, stangate sui rating da un mese ma che negli ultimi tre hanno recuperato 200 punti base sugli spread, illustra. Anche i declassamenti di lunedì di Moody’s sui debiti sovrani di mezza Europa, hanno fatto più il rumore per le critiche che altro.
Le Borse hanno chiuso vicino allo zero, più curanti degli sviluppi della crisi greca o dei dati macro. Il Tesoro ha piazzato i suoi 6 miliardi di Bpt a tassi calanti, lo spread sui Bund tedeschi ha limato ancora, a 365, benché il presidente del consiglio Mario Monti lo trovi «insoddisfacente». «Il giudizio di Moody’s era atteso e non fa più sorpresa, è positivo che il mercato non ha neanche battuto ciglio – ha aggiunto – . In genere sono gli stati e le vigilanze a dare peso alle agenzie, eleggendole quasi a Vangelo. Ma le agenzie tante volte hanno sbagliato: in particolare non hanno visto quasi niente della grande crisi 2007».
Negli ultimi nove mesi le bordate dei governanti sulle agenzie sono la regola. Tutto inizia l’estate scorsa, quando S&p leva la tripla A al debito degli Usa, che contestano errori di calcolo (in parte ammessi). Gli investitori, per un riflesso dettato dalla paura, concentrano il denaro sulle emissioni ritenute più sicure, così i tassi del T-bond americano calano. Poi la crisi si trasferisce stabilmente in Europa: tra settembre e ottobre S&p e Moody’s flagellano il merito di credito dei paesi periferici, con reazioni alterne sui mercati e forti critiche dei politici. Che spesso dimenticano i toni istituzionali. «Le agenzie di rating sono strumenti del capitalismo finanziario Usa», ha detto di recente il commissario Ue Olli Rehn, riferendosi agli azionisti privati e yankee di Moody’s e Standard & Poor’s. Il ministro tedesco degli esteri, Guido Westerwelle, ha sposato la teoria del complotto: «Ogni volta che nell’Eurozona ci sono buone notizie le agenzie sollevano artificialmente la tensione: c’è urgente bisogno di agenzie europee e indipendenti». Il fatto che le agenzie “accreditate” a livello globale siano solo tre, anche per via della regolamentazione Usa, non aiuta, e fa pensare a una cricca. La Cina da anni si è creata un’agenzia propria (statale, è Dagong) che irride e talvolta anticipa la triade.
Di questo passo le misure in iter alla Commissione Ue rischiano dare il colpo di grazia agli oligarchi del rating. Si profilano nuovi attori, pubblici e autoctoni, regole più severe sui modelli di business, la possibilità di sospendere i rating, la rotazione obbligatoria degli attori. La lobby delle agenzie esistenti sta tentando di arginare le riforme. Non sarà affatto facile.
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