I nostri ragazzi, visti dagli afghani
Che bilancio fanno gli afghani dell’intervento militare occidentale nel loro paese? I giudizi e la percezione degli afghani sono stati relegati ai margini del dibattito politico. Sono invece al centro dell’indagine realizzata da Giuliano Battiston (e promossa dall’organizzazione non governativa Intersos), Le truppe straniere agli occhi degli afghani, di cui qui riprendiamo un’ampia sintesi. La ricerca è basata su interviste condotta nelle province di Herat, Farah e Badghis, tutte sotto il comando occidentale.
Il dato più evidente è uno scollamento tra le opinioni espresse dalle cancellerie occidentali e quelle degli afghani. I primi sostengono che, a dieci anni dall’avvio dell’intervento militare in Afghanistan, le forze Isaf-Nato e americane sono riuscite a stabilizzare il paese. Gli afghani dichiarano al contrario che la comunità internazionale ha fallito nel garantire la sicurezza alla popolazione.
Secondo la gran parte degli intervistati il dispiegamento delle truppe internazionali non ha prodotto i risultati sperati. Dove ci sono stati risultati positivi, nel campo della sicurezza, risultano fragili e temporanei; la popolazione si sente vulnerabile sia alle attività dei movimenti antigovernativi, sia alle operazioni delle forze Isaf-Nato.
La maggior parte degli intervistati lamenta condizioni di sicurezza molto precarie, spesso peggiori di alcuni anni fa. L’incapacità di arginare l’espansione territoriale dei Taleban e di garantire l’incolumità della popolazione locale ha prodotto una diffusa sfiducia verso le forze internazionali, anche tra coloro che gli avevano dato credito all’inizio dell’intervento militare nel 2001. La sfiducia a volte si traduce in disillusione, risentimento e sospetto.
(…) Molti degli intervistati lamentano lo squilibrio tra i fondi allocati e distribuiti per le operazioni militari e quelli destinati all’aiuto allo sviluppo e all’assistenza delle comunità locali, e rivendicano un maggiore coinvolgimento nella progettazione, realizzazione e mantenimento dei progetti promossi dalla comunità internazionale. L’ossessione della sicurezza avrebbe infatti relegato ai margini la ricostruzione delle infrastrutture; progetti a lungo termine per garantire la sostenibilità del sistema economico; per ripristinare un quadro istituzionale funzionante e trasparente; per edificare un sistema di diritto efficente, garanzia di giustizia e di uguaglianza per tutti i cittadini.
Gli intervistati hanno idee diverse su cosa significhi «sicurezza», ma in generale intendono, altre all’incolumità fisica, eliminare gli ostacoli di natura sociale, economica e politica che producono marginalità ed esclusione, sfruttamento e discriminazione, e che impediscono la piena partecipazione dei cittadini.Alle forze internazionali è imputata una scarsa considerazione della popolazione civile, l’incapacità di distinguere i civili innocenti dai «ribelli», l’uso indiscriminato di bombardamenti aerei e raid notturni, la violazione degli spazi domestici. Tra le lamentele più diffuse vi è quella che le truppe straniere agiscono al di fuori di ogni quadro giuridico certo, rispondendo soltanto ai propri codici di condotta, esenti da scrutinio pubblico. (…) Tutto ciò ha fatto crescere la sfiducia e la diffidenza nei loro confronti, insieme all’idea che siano in Afghanistan per promuovere o difendere i propri obiettivi strategici, più che per garantire il benessere della popolazione. (…) Molti eserciti, tra cui quello italiano, sono accusati perfino di distribuire soldi e mezzi ai Taleban, per evitare combattimenti veri.
A dispetto di tante obiezioni all’operato dei contingenti internazionali, la maggior parte degli intervistati ritiene che le truppe straniere dovrebbero restare oltre la data annunciata del ritiro, il 2014. Molti temono l’instabilità del quadro politico interno, hanno scarsa fiducia nella leadership locale: le truppe straniere, pensano, sono un deterrente all’affermazione degli «studenti coranici» più efficace rispetto a un esercito locale ancora debole e male addestrato. Temono perché, se si ritirassero le truppe straniere, ne deriverebbe un vuoto che sarebbe presto occupato dalle potenze regionali confinanti, in particolare Iran e Pakistan, accusati di interferire deliberatamente negli affari dell’Afghanistan. E molti si rendono conto che gli aiuti alla ricostruzione e alla stabilizzazione sono vincolati alla presenza delle truppe straniere e senza di esse, gli attori internazionali potrebbero rinunciare a ogni impegno futuro.
Anche tra chi auspica che le truppe straniere non si ritirino però molti chiedono un cambio di paradigma. Gran parte degli intervistati ritiene che le forze di sicurezza locali siano ancora impreparate, e che la creazione di un esercito nazionale professionale costituisca uno strumento indispensabile per ritrovare la perduta sovranità .
Quanto al dialogo con i movimenti antigovernativi, molti sostengono la via della riconciliazione, la soluzione politico-diplomatica. Non emergono però indicazioni più chiare sui passi da compiere per renderla realizzabile. La riconciliazione con i movimenti antigovernativi sembra rimanere per ora soltanto un’indicazione di massima. Molti si dichiarano incerti ad esempio sulla legittimità di un futuro governo di «grande coalizione», che includa tutte le principali forze politiche del paese inclusa quella Taleban.
Alcuni sottolineano inoltre che la rivendicazione di giustizia per i crimini passati non va subordinata del tutto alla ricerca della pace, e suggeriscono che, prima di intraprendere qualsiasi nuova iniziativa politicodiplomatica, si accertino le passate responsabilità , in termini giudiziari ma anche etico-morali. La maggior parte dei partecipanti alla ricerca osserva come ogni processo di riconciliazione debba essere trasparente, aperto allo scrutinio pubblico e subordinato alle esigenze della maggioranza.
Circa le attività integrate civili-militari, secondo le opinioni raccolte, i Prt sono incapaci di assolvere i propri compiti: garantire la sicurezza della popolazione, favorire la ricostruzione delle infrastrutture, rafforzare la legittimità del governo. (…) Molti lamentano la confusione tra gli obiettivi della sicurezza e quelli della ricostruzione. Viene contestato il fatto che ai militari siano assegnati compiti civili, di ricostruzione o di assistenza: i militari dovrebbero occuparsi della sicurezza, proteggendo la popolazione e combattendo i movimenti antigovernativi, mentre i progetti di sviluppo e ricostruzione andrebbero ideati, promossi e seguiti da organizzazioni civili, governative e non.
Per molti degli intervistati, le attività integrate, civili-militari dei Prt sono anche pericolose per la popolazione, perché in Afghanistan tutti i militari sono considerati obiettivi dei movimenti antigovernativi.
Il pericolo è particolarmente avvertito nella città di Herat, dove ha sede il Prt italiano. Gli intervistati condannano in modo unanime la scelta di stabilire il Prt all’interno della città , in una zona residenziale, e ribadiscono la richiesta di trasferirlo fuori città . Per molti, il fatto che il trasferimento non sia ancora avvenuto testimonia la scarsa attenzione delle truppe internazionali per le opinioni degli afghani.
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