I muti addii di un autore fantasma

by Editore | 29 Febbraio 2012 8:41

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Cos’è un fantasma? Un fantasma è chi svanisce «nell’impalpabilità  attraverso la morte, attraverso l’assenza, attraverso un cambiamento di modi». A suggerirlo è Stephen Dedalus, accerchiato da un accolita di necrofili letterati nel nono capitolo di Ulisse, mentre è intento a cimentarsi con la famosa e spettrale teoria shakespeariana. Ma la domanda latente a cui tale definizione conduce è la seguente: può un fantasma (ri)apparire? Apparentemente sì, ed è quanto accaduto a Desmond Hogan, scrittore e storyteller così noto nei primi anni ottanta da annoverare tra i propri ammiratori persino il poeta Ted Hughes. Hogan scompare dalle scene a metà  degli anni novanta, a seguito di un inaspettato declino di pubblico e sorti letterarie. Scompare non per morire, però; per vivere semmai, e ne è prova la pubblicazione presso l’editore Playground della raccolta di racconti L’ultima volta (traduzione di Gaja Cenciarelli, pp. 144, Euro 12). 
Il ricordo che di lui si ha resta tuttavia immancabilmente evanescente. Reminiscenze di amici e conoscenti lo descrivevano come uomo magro, dai modi distanti, con lunghe ciocche di capelli a incorniciare un ruvido profilo celtico. Dopo un vero e proprio exploit raggiunto con la pubblicazione, nel 1979, di The Diamonds at the Bottom of the Sea, and Other Stories, e proseguito poi con una serie di altre raccolte di racconti, di lui si perdono le tracce pressappoco nel 1994. Il mistero si intensifica nel 1995, con il relativo flop di quel suo Farewell to Prague, uscito con Faber & Faber, che non raggiunge le cinquemila copie vendute. 
Iniziano quindi a circolare su di lui tutta una serie di storie: che viva in Yemen, che abbia girato la Russia in lungo e in largo, che abbia finito per campare di stenti, espedienti, e in preda a paranoie, in una roulotte parcheggiata in una cittadina irlandese di provincia. Si vocifera persino che sia impazzito, o che un male oscuro oramai lo possegga. Eppure negli anni ottanta aveva avuto il suo momento di gloria, anche accademica, avendo insegnato a University College Dublin, lo stesso ateneo di Joyce. I suoi racconti, oltre che in volume, erano usciti in riviste prestigiose quali la «Transatlantic Review». Ma dove inizia il peregrinare di Desmond Hogan?
Nato nel 1950 a Ballinasloe, nei pressi di Galway, cittadina nota per la famosa horse fair annuale e arricchita dalla presenza di una comunità  di nomadi perfettamente integrata, riceve un’istruzione rigidamente cattolica. Maturerà  gradualmente, in seguito, una convinta insofferenza nei confronti della cultura nazionale irlandese, basata per certi versi proprio su quel cattolicesimo ortodosso che mal sembra convivere con l’indole eterodossa dell’autore. Tale insofferenza lo porterà  allora verso altri lidi.
Dall’Irlanda, infatti, Hogan fugge via, e come tanti emigrati suoi connazionali finisce a Londra, la capitale di quello che è per gli irlandesi una sorta di Purgatorio, come amò definirlo egli stesso. Qui ben presto diviene parte, seppur in maniera spesso incostante e marginale, dell’establishment letterario, e sarà  molto ammirato da artisti e scrittori alla ribalta, tra cui l’amico Kazuo Ishiguro. Proverbiali sono le cene bohemien nello spoglio seminterrato in cui viveva a Catford, un sobborgo a sud del Tamigi, con la porta sempre aperta. In queste occasioni, da buon irlandese si intratteneva a chiacchierare con persone di ogni tipo e rango, raccontando storie come un vero e proprio shanachie – un narratore tradizionale. Una figura alla Brendan Behan, insomma, sebbene meno esposto alla violenza mediatica che portò l’altro a una fine ingiusta e immeritata. Una vita spartana la sua, scettico com’era nei confronti del progresso e dei dottori, amante delle cabine telefoniche perché sospettoso dell’intrusione nella vita privata che l’uso del telefono inevitabilmente comporta. Ma neanche l’Inghilterra nel tempo lo soddisfa, e più o meno in corrispondenza con la caduta del Muro, si incammina, dopo un breve periodo in cui insegnerà  in Alabama, per lunghe peregrinazioni nel cuore dell’Europa, facendo la staffetta tra Berlino, Praga, e Amsterdam. Tornerà  poi, nel 1995, in un’Irlanda diversa, agli albori di quel boom economico che è ora solo un ricordo per gli abitanti dell’isola di smeraldo. Vivrà  prima a Galway e poi a Limerick, sempre in alloggi di fortuna, e continuamente a stretto contatto con quelle comunità  di nomadi rievocate così di frequente nei suoi racconti. Degli zingari Hogan condivide e apprezza lo stile di vita libero da artificiose restrizioni sociali, e ne rincorre l’abilità  affabulatoria e l’estro individuale.
In tutti questi anni, amici e persone dell’establishment letterario con cui aveva avuto rapporti non riescono quasi mai a contattarlo, e l’aura di mistero che lo circonda si infittisce sempre più, finché un giorno Anthony Farrell, della Lilliput Press di Dublino, non lo aiuta a ripubblicare una raccolta di storie vecchie e nuove, dal titolo Larks’ Eggs. Ed è così che riappare il fantasma.
L’edizione italiana seleziona dal testo alcune short stories, con il consenso e seguendo i suggerimenti dell’autore. Tra i racconti si segnalano vere e proprie perle, come L’ospite, L’uomo venuto dalla Corea e Il dente di Leone, in cui emerge tutto l’astio mai urlato nei confronti dell’Irlanda e dei rigidi estremismi che secondo l’autore ne segnano i destini recenti, ma anche il radicamento in una cultura la cui spettrale evocatività  gli appare ineluttabile. È questo un libro di partenze, di assenze, di addii muti, in un narrare intriso di tensione verso l’alterità , sia essa la condizione di esule, o l’omosessualità  sussurrata. Il testo mostra a tratti un tocco epifanico, e l’andamento narrativo scandito da toni quasi epigrammatici è cullato da una prosa asciutta, precisa, che permette di scartare le maglie talvolta troppo strette dell’ideologia. 
Da notare, la tendenza all’interrelazione tra le storie, con personaggi che riemergono e riappaiono qua e là , come a indicare sommessamente un’unità  del raccontare, come se tutto non fosse che un unico atto affabulatorio, un unico incanto narrativo.

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