I giovani, il lavoro e i lapsus del governo

Loading

In primo luogo, c’è un problema cognitivo: le élites sociali, economiche, intellettuali del Paese, oggi investite della diretta responsabilità  di governo, conoscono l’Italia attraverso stereotipi (la colpa delle nostre condizioni è nel buonismo sociale) oppure attraverso le privilegiate esperienze di familiari e di amici (da cui apprendono che la mobilità  è benefica, e che il lavoro gratificante si trova a Washington o a Wall Street o nella Silicon Valley, e non a casa di papà  e mamma dove lo cercano, senza trovarlo, i giovani e illusi fannulloni). Questo cortocircuito è il segno che le élites oggi sono distanti dalla massa dei cittadini; la contrazione del ceto medio – già  ampia e articolata riserva di energie culturali, sociali e anche politiche – lascia il campo a una società  frammentata fra le élites sempre meno numerose, e sempre più separate, e i cittadini “normali”, sempre più anonimi, passivi, incompresi. Non è questione di buona volontà  o di sensibilità  individuale. È una nuova struttura della società  ciò che si profila dietro quelle parole.
Da qui un ulteriore problema politico. Le élites hanno sempre maggiore difficoltà  a dirigere un Paese attraverso un’egemonia di tipo tradizionale: cioè attraverso un discorso che sia, com’è inevitabile, di parte, ma che al tempo stesso sappia aprire un orizzonte in cui c’è spazio per tutti, e non solo per pochi privilegiati. Ciò non significa che il governo non farà  nulla per modificare il contesto in cui il lavoro manca per giovani e meno giovani, e, quando c’è, è sempre più spesso precario, sottopagato, non in linea con gli studi effettuati, e poco tutelato; significa però che oggi le élites muovono, per default, da una posizione, da una ideologia, che vede gli imperativi sistemici dell’economia non solo come privi di alternative ma anche scarsamente governabili. Significa che sostituiscono l’oggettività  alla persuasione e al consenso – la tecnica alla politica, si direbbe, se non fosse politico anche l’agire che si presenta come tecnico –.
Le élites hanno in mente un futuro poco condiviso da chi lo deve vivere, cioè soprattutto dai giovani (che del futuro sono i naturali abitatori). E lo propongono senza farsene troppi problemi, senza sforzarsi neppure di nascondere il fastidio per la riluttanza dei diretti interessati davanti all’immagine, presentata come gratificante, di un lavoro perennemente mobile – cioè, in realtà , perennemente mancante –. Tanto che li trattano con qualche durezza, con qualche impazienza, poiché li vedono collocati prevalentemente nel “passato”. Ma in realtà  quei giovani, e anche i meno giovani, hanno i piedi ben piantati nel presente; e conoscono già , da qualche decennio, la realtà  del lavoro che scarseggia; ma la vivono come una perdita, come un vulnus, rispetto sia alle aspettative individuali (tutte illusorie?) sia allo stesso impianto categoriale e valoriale della Costituzione.
E questo è un ulteriore problema politico. Come conciliare la previsione programmatica e valoriale di una repubblica democratica fondata sul lavoro – ovvero l’idea di una civile convivenza che al lavoro affida la funzione di socializzazione, di promozione della persona umana, e che ne fa lo strumento privilegiato perché il cittadino determini in autonomia il proprio avvenire –, con la realtà  di segno opposto del recente passato, del presente e anche dell’avvenire? Questo è un problema che deve interpellare chiunque faccia politica (a qualunque titolo), e spingerlo a interpretare con buon senso e con radicalità  (cioè senza ideologie e senza superficialità ) l’esperienza presente, ma anche a ricondurla nell’alveo, della nostra Costituzione, della nostra democrazia.
L’ultimo, e più grave, problema politico a cui rimandano le difficoltà  comunicative del governo è infatti la crisi del capitalismo (o almeno della interpretazione che ne dà  la dominante cultura neoliberista). È una crisi che ha almeno due volti: dal punto di vista istituzionale, implica un conflitto tra finanza e democrazie indebitate che apre contraddizioni laceranti fra i politici (sia i “tecnici” al governo, sia i partiti in Parlamento) che si devono fare carico di misure decise fuori dagli spazi della sovranità  democratica, e i cittadini che le subiscono. Da un punto di vista materiale, poi, il capitalismo sta perdendo la sua capacità  di realizzare crescita attraverso il lavoro sociale, che è stata la sua giustificazione storica, la sua legittimazione democratica. Se è vero che è più facile, oggi, creare ricchezza che creare lavoro, e che il lavoro sarà  sempre più spesso scarso, dequalificato e sottopagato, che ne è del significato progressivo del capitalismo, della sua promessa di futuro?
Almeno alla questione del lavoro – della sua difesa, della sua centralità  politica, del suo sviluppo – anche un governo “tecnico” non può non impegnarsi a dare risposte all’altezza della questione democratica che vi è implicita. Una risposta linguisticamente, concettualmente, operativamente, adeguata alla fiducia non solo tecnica che riscuote dentro e fuori d’Italia.


Related Articles

La caduta dello spread: quota 275 Mai così giù da agosto del 2011

Loading

«In Europa disoccupazione record, oltre 20 milioni di persone»

Bonus 80 euro di Renzi: restituito da 1 milione e 700 mila

Loading

Renzinomics. Spesi 9 miliardi nel 2015 solo per il bonus Irpef. Aumentano le tasse locali

Allarme dall’Europa: il debito è troppo alto

Loading

«Nel 2015 il picco del 133,8%, la ripresa più lenta del previsto». Si apre il caso Germania

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment