I flussi pervasivi della metropoli

by Editore | 16 Febbraio 2012 9:07

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Durante il Novecento si sono presentati nelle società  occidentali diversi periodi di intenso cambiamento. Si pensi, per esempio, agli anni Venti e Trenta oppure agli anni Cinquanta e Sessanta. Ma probabilmente è negli anni Settanta che sono avvenuti i mutamenti più radicali, destinati a modificare in profondità  la struttura economica e sociale. Questa fase merita di essere osservata con attenzione, anche perché in essa si trovano molte delle radici dei cambiamenti sociali successivi. È in essa infatti che, com’è noto, si è realizzato il passaggio al modello postfordista del sistema capitalistico, che ha messo radicalmente in discussione il modello precedente del capitalismo industriale, il quale si era a sua volta basato sulla produzione in serie di beni omogenei e aveva sostituito a metà  del Settecento il capitalismo mercantile. Intorno a questo nuovo paradigma, che possiamo definire del capitalismo estetico, si interrogano alcuni libri usciti di recente.
La svolta degli anni ’70
Con l’arrivo del postfordismo, la grande fabbrica industriale è stata progressivamente smembrata e ha assunto la forma di una struttura reticolare dispersa sul territorio e composta da piccole realtà  produttive, ma anche da una forza lavoro frammentata in tante unità  singole e sempre più mobili e precarie. Di conseguenza, si è modificata la concezione della fabbrica, che, nonostante la dispersione sul territorio, si è fatta «integrata», sulla scia del modello messo a punto dalla giapponese Toyota, teso ad unire capitale e lavoro in un unico sforzo produttivo. L’identità  degli individui così non deriva più dall’appartenenza a una determinata classe sociale, ma dalla consapevolezza di partecipare a un comune progetto produttivo.
Le cause di questa trasformazione sono molteplici. Innanzitutto, è noto come le lotte giovanili e operaie della fine degli anni Sessanta avessero destato preoccupazione negli imprenditori, i quali sentivano la necessità  di sperimentare nuove strategie produttive che dessero loro maggior controllo sulla forza lavoro. D’altronde, era anche la logica evolutiva interna al sistema industriale che spingeva gli imprenditori a cercare una maggiore flessibilità  produttiva. Una flessibilità  resa possibile anche dalla riduzione del costo dei trasporti e dalla nuova disponibilità  di quella struttura «a rete» che caratterizza il funzionamento delle tecnologie informatiche. 
A questi dati va aggiunta la spinta al cambiamento derivante dalla pesante crisi economica sopraggiunta nella prima metà  degli anni Settanta, quando molti mercati dei beni di largo consumo hanno raggiunto per la prima volta il livello di maturità  e di saturazione. Una crisi particolarmente scioccante perché arrivata dopo un lungo periodo di sviluppo economico e di benessere. Si è capito così che le merci prodotte non avrebbero più trovato automaticamente la loro domanda. Era necessario invece produrre, oltre alle merci, anche i consumatori, cioè sviluppare negli individui una «coscienza» della obbligatorietà  del consumo e del piacere che da esso si può ricavare. 
Trasformazioni strutturali
Il singolo consumatore è stato dunque responsabilizzato circa il suo dovere di consumare, cioè di partecipare al processo produzione-consumo. Non a caso alla fine degli anni Settanta il futurologo Alvin Toffler ha registrato questi cambiamenti teorizzando la figura del «prosumer», che unisce in sé «producer» (produttore) e «consumer» (consumatore). Una figura diventata, nel corso dei decenni successivi, centrale per lo sviluppo del mondo dei consumi. La crescente personalizzazione delle scelte operate da parte dei consumatori dunque non è il frutto di una volontà  autonoma manifestata da questi ultimi, ma di una necessità  del sistema economico, il quale in tal modo può rendere flessibile, oltre alla produzione, anche il consumo. 
Per realizzare le trasformazioni strutturali del sistema economico e sociale che si sono verificate negli anni Settanta è stato necessario inoltre che la produzione estetica, intesa come produzione di sensibilità  e di sensazioni percepite attraverso il corpo, si integrasse pienamente nella produzione di merci in generale. E che il sistema delle merci subisse lo stesso destino di astrazione e flessibilizzazione. Che cioè entrasse in quel regime di flussi comunicativi costantemente variabili che caratterizza da sempre il mondo dell’estetica e della cultura.
Il volume Parole chiave della nuova estetica (Carocci, pp. 271, euro 21), che Riccardo Finocchi e Daniele Guastini hanno recentemente curato, cerca di mostrare come si configura oggi, a distanza di trent’anni, il fenomeno dell’estetizzazione sociale. Cerca cioè di mettere in luce, attraverso 82 voci scritte da 38 autori italiani, come l’arrivo della nuova fase estetica del capitalismo abbia modificato in profondità  l’esperienza quotidiana degli individui. Finocchi e Guastini attribuiscono l’individuazione del concetto di estetizzazione al Walter Benjamin de L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità  tecnica. In effetti, Benjamin in quel saggio, uscito nel 1936, ha trattato ampiamente il tema della diffusione sociale dell’estetica anche se, utilizzando il termine estetizzazione, si riferiva allo specifico ambito della politica. 
Tre anni dopo, nel saggio Di alcuni motivi in Baudelaire, poi raccolto nel volume Angelus Novus, Benjamin ha mostrato una superiore consapevolezza del ruolo centrale svolto dal processo di estetizzazione nell’intera società . Ha scritto ad esempio che «c’è una specie di concorrenza storica fra le varie forme di comunicazione. Nel sostituirsi dell’informazione alla più antica relazione, e della “sensazione” all’informazione, si rispecchia l’atrofia progressiva dell’esperienza». Benjamin dunque ha colto con chiarezza come nelle società  capitalistiche la sensazione prenda sempre più il posto dell’informazione. E più avanti, nello stesso saggio, ha stabilito una precisa connessione tra le sensazioni sperimentate dai passanti nella folla in movimento delle metropoli e il processo di produzione in serie della fabbrica, così come ha messo in collegamento quest’ultima con la mobilitazione dello sguardo che caratterizza l’esperienza di visione dello spettacolo cinematografico: «Nel film la percezione a scatti si afferma come principio formale. Ciò che determina il ritmo della produzione a catena, condiziona, nel film, il ritmo della ricezione». Il capitalismo pertanto, secondo Benjamin, estende il modello della produzione in fabbrica all’intera gamma delle esperienze sensibili e lo fa applicandolo non solo come modello economico, ma, in maniera più sottile, come modello culturale in grado di generare esperienze.
A ben vedere, il tema delle conseguenze sociali del processo di estetizzazione era già  stato in certa misura concettualizzato all’inizio del Novecento da Georg Simmel, per il quale gli individui che si trovavano a sperimentare l’intensificarsi degli stimoli che caratterizzava la nuova condizione metropolitana cercavano di difendersi adottando una strategia di «raffreddamento» dei rapporti sociali, una strategia cioè di distacco mentale rispetto agli stimoli ricevuti. E Finocchi e Guastini ripropongano in sostanza la stessa tesi, quando affermano, senza citare esplicitamente Simmel, che l’ipersensibilizzazione contemporanea determina una desensibilizzazione e che quindi l’estetizzazione si trasforma a sua volta in una anestetizzazione. 
Il ruolo delle avanguardie
Riprendendo queste intuizioni di Benjamin e Simmel, Giacomo Ravesi ha messo di recente a fuoco nel volume La città  delle immagini. Cinema, video, architettura e arti visive (Rubbettino, pp. 221, euro 18) i complessi legami esistenti nelle società  avanzate tra l’esperienza della metropoli e i linguaggi visivi. Che si sono sviluppati perché oggi, come ha sostenuto lo stesso Ravesi, «l’immagine della metropoli contemporanea si è definitivamente espansa nel “flusso” della comunicazione mediale». Ma interessante è soprattutto che questo processo di fusione delle metropoli all’interno del flusso circolante sugli onnipresenti schermi video sembra essere guidato dallo stesso flusso mediatico. Il quale definisce criteri organizzativi che regolano le modalità  attraverso le quali gli individui fanno esperienza del mondo.
Le numerose sperimentazioni effettuate nel corso del Novecento da parte di artisti e cineasti d’avanguardia hanno prefigurato una realtà  che è diventata esperienza di massa grazie ai progressi delle tecnologie della comunicazione. Tali sperimentazioni hanno mostrato che il flusso non costituisce più una semplice forma da contemplare. L’inclusione della dimensione corporea e soggettiva dell’osservatore nell’elaborazione della visione dà  vita infatti a un’esperienza percettiva complessa e multisensoriale – una visione cioè non più soggettiva e stabile, ma personale e aperta. Emerge così una vera e propria «metropoli estetica», nella quale è mutata la percezione degli spazi metropolitani che – in sintonia con le rappresentazioni degli artisti d’avanguardia – sembrano assumere su di sé lo spazio-tempo fluido e multiplo che caratterizza l’elettronica e mettono da parte le coordinate spazio-temporali della geometria euclidea, della visione prospettica e della linearità  temporale.
Siamo però ancora di fronte a una metropoli dove la percezione umana è guidata da quel ritmo «a scatti» e quella continuità  propri sia del montaggio del cinema, sia della logica della catena di montaggio in fabbrica. E l’avvento della Rete ha esteso tutto ciò dando vita a una nuova «fabbrica sociale» dove tutti oggi lavorano. L’elettronica inoltre, grazie alla sua fluidità , ha reso sintonico il ritmo della produzione con l’anatomia dei corpi umani. Si pensi, a questo proposito, al ruolo giocato dalle nuove interfacce tattili. In questo modo quel distacco mentale di cui parlava Simmel non appare più sufficiente agli individui per proteggersi. Infatti, in un contesto sociale come quello contemporaneo, dove i ritmi di vita e gli stimoli per il soggetto hanno raggiunto livelli di intensità  decisamente più elevati rispetto ad un secolo fa, appare evidente che le identità  individuali diventano comunque costruzioni sempre più fragili e instabili.
Dioniso al mercato
D’altronde, il capitalismo opera costantemente un vero e proprio sfruttamento del gusto degli esseri umani. Questo infatti, da individuale e collettivo, viene reso misurabile e scambiabile sul mercato e diventa dunque massificato e omologato. Ma è proprio attraverso questo processo che il capitalismo riesce a produrre valore economico. Lo illustra molto bene nel volume Dioniso crocifisso. Saggio sul gusto del vino nell’era della sua produzione industriale (DeriveApprodi, pp. 192, euro 16) Michel Le Gris, il quale, analizzando il caso dell’evoluzione subita dal vino in Occidente negli ultimi secoli, dimostra come si sia progressivamente affermato un gusto banalizzato e impoverito, ma adatto alla conquista dei mercati.

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