I CORSARI DELLA NOTIZIA

by Editore | 23 Febbraio 2012 9:00

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È evidente. Ovvio. Il cronista non è un artista e ancor meno uno scienziato. Il suo mestiere è vicino a quello dell’artigiano. Ha un’utilità  diretta. Assicura un servizio pubblico indispensabile a una società  democratica: informare. Informare cercando di sfuggire a mille insidie, e tra queste la fiction, l’immaginazione, riservata all’artista. Informare accettando la verità  del momento, destinata a cambiare, a evolvere. Una verità  esposta alle emozioni e alle insidiose idee preconcette. Questa attività  approssimativa, sempre soggetta a correzioni, ad aggiornamenti per avvicinarsi a un’inarrivabile esattezza, è vulnerabile a tanti virus. Virus politici, morali, economici, creati dall’ambizione e dalle intime, soggettive convinzioni. Il mestiere rivela tutta la sua nobiltà  quando per raccontare la verità  del momento, effimera ma preziosa, il cronista mette a repentaglio la vita. Allora l’artigiano riscuote il rispetto che gli è dovuto. 
Scrivo pensando naturalmente agli ultimi due cronisti uccisi a Homs, in Siria. Il fotoreporter francese, Rémi Ochlik, aveva 28 anni e una faccia da ragazzino. Era già  ricco di esperienze. Libia, Congo, Haiti. Mi ricorda tanti altri giovani suoi colleghi per i quali ho provato una simpatia e un’ammirazione immediate perché per imprigionare frammenti di realtà  correvano molti più rischi di noi cronisti della parola scritta, e perché quei loro frammenti di realtà  riuscivano a riassumere in un’immagine, spesso in una sola immagine, un conflitto in corso da decenni o un evento politico al quale sarebbero stati riservati capitoli di storia. Nella civiltà  delle immagini, priva di sfumature, generosa sui teleschermi di verità  approssimative e affrettate, capita che il fotoreporter coraggioso e geniale sappia cogliere momenti rivelatori, inafferrabili per le telecamere e anche per il cronista armato di penna e computer. C’è una bella fotografia di Rémi Ochlik scattata sul litorale libico. Vale un documentario. In quel caso l’artigianato diventa arte e può entrare in un museo. 
Così come l’ultimo articolo di Marie Colvin, apparso sul Sunday Times, in cui racconta il suo arrivo a Homs, dopo una notte passata sulle piste libanesi e siriane dei contrabbandieri, è un prodotto artigianale che può entrare in un’antologia letteraria. La reporter americana aveva il piglio di un corsaro, con la benda nera che nascondeva la mancanza dell’occhio sinistro, perduto in un’imboscata nello Sri Lanka, dove seguiva il dramma dei Tamil. Aveva un piglio da corsaro, con l’annessa audacia, ma anche una precisa coscienza di quel che è il mestiere del reporter. Un mestiere il cui compito è di raccontare gli orrori della guerra «con precisione e senza pregiudizi». Così ha detto un paio d’anni fa Marie Colvin in una chiesa londinese dove si ricordavano i cronisti e i loro ausiliari morti o feriti in conflitti armati. 
Non penso che quello del corrispondente di guerra sia una precisa specialità  del giornalismo. È un’attività  che svolgono reporter spesso impegnati in altri campi. Da quello politico a quello culturale. Non pochi celebri scrittori hanno frequentato i campi di battaglia, o hanno bazzicato nelle vicinanze e li hanno descritti. Poi sono ritornati ai loro romanzi. Quel che distingue chi svolge sul serio, sia pur temporaneamente, il lavoro di reporter di guerra è la necessità , anche morale, di «andare sul posto». Come Rémi Ochlik e Marie Colvin. 
In questo senso il corrispondente di guerra può servire come punto di riferimento. Ricorda che il reporter, nel rischio o nella normalità , deve cercare di essere un testimone diretto, non deve dipendere, nei limiti del possibile, dai numerosi e comodi filtri offerti dalla tecnica. La civiltà  delle immagini e dell’informatica spinge a raccontare sui giornali la meschina, centellinata realtà  che appare sul video, o che viene offerta da Internet. Così capita che lo stesso giorno un corrispondente possa scrivere articoli da posti diversi fingendo di esserci, o possa esibirsi su due o tre argomenti che non hanno nulla in comune. Rémi Ochlik e Marie Colvin hanno pagato con la vita il nobile vizio di «andare sul posto», di raccontare la realtà  nella sua cruda versione. Il primo con la macchina fotografica, la seconda con la biro e il taccuino hanno voluto scavalcare tutti gli ostacoli che si frappongono tra i cronisti e la verità  vera, sia pure la verità  del momento.

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