Guggenheim a Roma

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È la grande arte della seconda metà  del secolo che si è chiuso; e per quanto molte vulgate su quell’età  e quel luogo – il dopoguerra, e New York – siano state oggetto di nuove riflessioni e parziali revisioni, essa rimane imparagonabile a quanto è avvenuto altrove. Non certo per un difetto di qualità  e rilievo di quanto accadesse allora in Europa (oltre al prosieguo della grandi maturità  – di Picasso, Matisse, Mirà³… – basta pensare, e solo ad esempio, all’età  perfetta di Dubuffet, a quella di Nicolas de Staà«l o di Giacometti o, poco appresso, al percorso di Beuys), ma per il privilegio che la nuova arte americana ebbe allora di crescere, molteplice eppure unita e coesa, in un contesto straordinario fatto di solidarietà  e di colloqui, e di mercanti, collezionisti, gallerie e nuovi musei che la seppero accogliere, custodire e spingere ad affermarsi ovunque come la prima voce del mondo nuovo che si stava allora aprendo. Primo fra quei musei, il Guggenheim, nato per volontà  di Solomon Guggenheim nel 1937 e in seguito incrementato tra l’altro dalle collezioni di Peggy Guggenheim: donde adesso viene al Palazzo delle Esposizioni di Roma la mostra L’avanguardia americana 1945-1980 (a cura di Lauren Hinkson; aperta fino al 6 maggio; nel catalogo Skira saggi della curatrice e di Daniela Lancioni).
Idealmente la mostra si apre con uno dei più alti capolavori di Arshile Gorky, il grande Senza titolo del 1944, ove il pittore, d’origine armena ma da lungo tempo in America, proseguendo il modo di Mirà³ (aveva detto di sé d’esser stato, nel suo lungo tirocinio, “naturalmente” con Mirà³ e Picasso), ne trascina il surrealismo lontano da ogni vincolo narrativo, e in una dimensione ormai interamente astratta sparge in uno spazio amniotico segni, avvisi, macchie di colore leggero, acquoreo: sfiorando l’azzardo e l’automatismo che sarà  della pittura d’azione. Un olio di Tanguy sta, in quest’avvio degli anni Quaranta, a rappresentare la nozione europea del surrealismo; mentre una piccola carta di Matta dissemina il suo glaciale livore su di un paesaggio lunare, a mezzo fra visione fantastica e incubo della mente. Sono esempi, tutti e ciascuno d’alta qualità , di quel “surrealismo astratto” che era allora verbo corrente nei circoli d’avanguardia di New York, e dal cui alveo prese il la quello che fu poi nominato l’espressionismo astratto, e per prima la pittura di Jackson Pollock. Pollock è ancora attratto dall’icona di una misteriosa figura, a mezzo fra selvaticamente carnale e totemica, in La donna luna del ’42, la più antica fra le sue opere oggi in mostra, ed ha già  disvelto e frantumato quella “figura” in un ritmo convulso in Circoncisione (entrambi i dipinti furono poi esposti a Venezia nel 1948, nella presentazione che la prima Biennale del dopoguerra fece della collezione di Peggy Guggenheim, che fu allora una rivelazione per molti dei nostri artisti). Poi, ritroviamo Pollock disperso e disseminato ovunque in Argento verde e in Numero 18, fra i più celebri esempi del suo dripping, del modo cioè di far colare ciecamente colore sulla tela, percorrendola in un’affannosa gestualità ; infine, in Grigiore nell’oceano, del 1953, egli è già  intento a mettere le premesse per quel ritorno ad un’immagine turbata che occuperà  i suoi ultimi anni (nato nel ’12, morì nel ’56). Pollock è un po’ il cuore di questa rassegna, seguito ad ogni passo della sua breve vicenda. Attorno a lui, d’altronde, nacque il mito della “Scuola di New York”. 
Non altrettanto può dirsi per Willem de Kooning, i cui anni della lunga esistenza erano d’altronde più difficilmente documentabili in esteso, ma la cui grande Composizione del ’55 basta a testimoniare d’uno dei limiti estremi toccati dalla pittura d’azione, interamente coinvolta, e quasi straziata dal gesto urgente, definitivo. Accanto a lui Franz Kline, la cui opera del ’52, castamente geometrica, basta a dire uno dei due opposti poli (una cieca irruenza e un severo controllo) fra cui oscillò la sua creatività ; e – con un’opera più tarda ma importante, appartenente alla serie delle Elegie per la Repubblica Spagnola – Robert Motherwell. E ancora Still, Francis, Gottlieb, Baziotes…
Sul versante opposto, d’una profondità  e respirazione infinita del colore, l’opera del ’47 di Mark Rothko ne coglie solo il primo avvio alla splendida maturità , esplicata nel decennio seguente; mentre i primi passi di questo gigante della pittura (una pittura che egli si rifiutò sempre di ascrivere al dominio esclusivo dell’astratto) erano stati mossi ai primi degli anni Quaranta, delineando in nitide porzioni di spazio vertici e precipizi d’una sorta d’archeologia dell’intelletto. Accanto a lui, in mostra, Ad Reinhardt, contraltare già  precocemente proto-minimalista di Pollock, d’un assoluto rigore e fin reticenza emotiva delle sue strutture cromatiche: cui seguiranno quelle, al limite del concetto e della tautologia, di Ellsworth Kelly e di Kenneth Noland. L’universo della pittura, e della scultura, era nel frattempo radicalmente mutato, in quella che era ormai la capitale mondiale dell’arte. La Pop Art, poi subito appresso il minimalismo e – teorizzata dagli stessi suoi primi fautori, come Robert Morris – un’arte fatta all’opposto di materiali morbidi, flessuosi, poveri, vennero a sostituire la volontà  di confessarsi sulla tela, e con essa le sconfinate speranze dell’action painting. Robert Rauschenberg, così, “preparò” Warhol, Lichtenstein Rosenquist, Segal. E, su un altro fronte, Morris, Andre, Judd “prepararono” Serra, o la stagione successiva dello stesso Morris. Di tutto ciò dà  conto esauriente la mostra odierna, che procede poi a documentare taluni sviluppi dell’arte americana, fino alla pittura fotorealista, erede della Pop e di certo iperrealismo costante nell’arte d’oltreoceano.
Una sola cosa non cambiò, nel susseguirsi delle diverse stagioni, configurandosi infine come il primo vanto del nuovo sistema dell’arte elaborato a New York. Ed è stato il modo in cui un nuovo linguaggio sostituiva il precedente senza sminuirlo, ma anzi – nel momento stesso in cui lo dichiarava superabile, consegnandolo al Museo – di fatto storicizzandolo, e dunque ampliandone il credito e il valore. Di un tale meccanismo, la vecchia Europa non era stata capace


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