Gerusalemme, Hebron tensione alle stelle

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Un giovane ucciso a Kalandia. Le due città  sante della Palestina in fiamme. I territori palestinesi e l’occupazione israeliana tornano in primo piano. Talat Ramia, 25 anni, colpito ieri in pieno petto da un proiettile sparato dai soldati al valico di Kalandia, tra Ramallah e Gerusalemme, si è spento in ospedale. I medici hanno fatto il possibile per rianimarlo ma non sono riusciti a salvarlo.
Scontri seguiti a quelli violenti, con 35 palestinesi (e alcuni poliziotti israeliani) feriti, divampati sulla spianata della moschea di al Aqsa a Gerusalemme al termine della preghiera islamica. A Hebron, la città  dei Patriarchi, soldati e guardie di frontiera hanno disperso con una pioggia di lacrimogeni e granate assordanti, due cortei organizzati in occasione della giornata di lotta per la riapertura di Shuhada street, la più importante via di comunicazione all’interno della città  vecchia di Hebron, chiusa dall’esercito israeliano nel 2000.
Causa dell’impennata di tensione a Gerusalemme, sono i ripetuti proclami dell’ala più estrema del Likud, il partito del premier israeliano Netanyahu, e della destra ultranazionalista sull’imminenza di «perlustrazioni» nel recinto di al Aqsa e della moschea della Roccia, in vista della ricostruzione del tempio ebraico in quel sito.
Proclami, perlustrazioni e «passeggiate» della destra non sono una novità  nella storia recente della Spianata di al Aqsa. E le conseguenze di queste provocazioni sono state sempre gravi. Nel 1990, venti palestinesi uccisi e poi nel settembre 2000 la «passeggiata» tra le due moschee dell’ex premier israeliano Ariel Sharon, all’epoca capo dell’opposizione, con il suo drammatico bilancio di morti e feriti, innescò la seconda Intifada palestinese. Ora un dirigente del Likud, Moshe Feiglin, icona del movimento dei coloni, chiede che Israele prenda il pieno controllo della spianata di al Aqsa amministrata dal Waqf islamico.
A Hebron, città  della Tomba dei Patriarchi/Moschea di Ibrahim, divisa in due parti, H1 e H2, dagli accordi firmati da Netanyahu e l’ex presidente palestinese Yasser Arafat, il clima è sempre più irrespirabile. In particolare nella zona H2, dove 500-600 coloni israeliani ultranazionalisti si sono insediati tra oltre 20mila abitanti palestinesi. Poche centinaia di persone che, protette dalle forze armate, impongono la loro volontà  ai vicini palestinesi. L’impossibilità  di condurre una vita normale ha indotto molti residenti arabi ad andare via, gli altri vivono nascosti. Una condizione ben rappresentata dalla casbah semideserta e soprattutto da via Shuhada.
Un tempo questa era un’arteria cittadina piena di vita, di negozi e di botteghe artigiane. Ospitava la stazione dei bus e quella dei taxi, il mercato della frutta e un antico bagno turco. Ora non c’è quasi più nulla. Resistono solo le scuole. A chiedere la chiusura di via Shuhada sono stati «per ragioni di sicurezza» i coloni che vivono nei sei insediamenti vicini alla strada.
Nel 2010 i comitati popolari di Hebron, in accordo con gruppi di solidarietà  internazionali e israeliani, hanno proclamato il 25 febbraio – 18esimo anniversario del massacro di 30 palestinesi nella Tomba dei Patriarchi da parte del colono Baruch Goldstein – giornata di lotta per la riapertura di Shuhada Street e per il libero movimento dei palestinesi ad Hebron. E in città  nell’ultima settimana si sono tenute iniziative e dibattiti. Due cortei, con centinaia di attivisti giunti anche dall’estero e da Israele, ieri hanno provato a raggiungere via Shuhada per chiederne la riapertura. Ad accoglierli però hanno trovato i reparti antisommossa della guardia di frontiera e soldati: granate assordati, candelotti lacrimogeni, getti d’acqua nauseabonda. Una decina di attivisti feriti in modo leggero, Altri portati via dalle ambulanze


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Un giorno usciremo dall’eurocrisi. Quando proveremo a trarne un bilancio, non dovremo valutare solo i danni economici, sociali e politici prodotti in questi anni di decrescita, di lacerazioni nel corpo delle nostre società , di delegittimazione delle istituzioni e della stessa vita pubblica. Dovremo censire anche gli effetti culturali della disputa intorno ai “caratteri nazionali”, presunta origine della crisi in corso. Come se un redivivo Luca Pacioli avesse elaborato una partita doppia geoculturale, è di moda contrapporre i viziosi meridionali ai virtuosi nordici, le cicale alle formiche, i fannulloni mediterranei agli operosi baltici.

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