Generazione Sbucciata

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Tra le tante vie della scrittura, quella autobiografica è al tempo stesso la più facile e la più complicata. Diventa semplice per certi versi perché l’autore si muove all’interno del racconto come un pesce che nuota nell’acqua. Tutto gli è noto, ha già  confidenza con ogni cosa, nulla deve (né può) essere inventato. Forse, per buona pace di tutti, al massimo vanno cambiati alcuni nomi di persone o di luoghi. Ma si crea, attingendo da un bagaglio già  pronto.
Fin qui l’aspetto della leggerezza. La scrittura autobiografica, però, è anche la più difficile e complessa perché, per riuscire davvero, deve diventare una narrazione che ti fa fare i conti con te stesso. Il più delle volte significa che deve farti male. Che deve essere faticosa, dolorosa, colpirti fin nei reni e nel midollo. Deve marciare passo passo con le crisi, non solo con gli inevitabili momenti di crisi della scrittura, ma anche con quelle della personalità , con i dubbi su di te che arrivano al cuore stesso dell’autocoscienza. E infine, ma non è l’aspetto meno importante, la scrittura autobiografica mette l’autore davanti a quell’ultima barriera e intima protezione che può concedersi o che invece può aver scelto di far cadere davanti ai suoi lettori, denudandosi completamente.
Il fatto che alla fine ci sia sempre qualcuno che osi varcare quella soglia spiega tra l’altro quella singolare riserva di innocenza che, al momento in cui decide di pubblicare il libro, spinge l’autore o l’autrice a sperare di essere accolto dal “miracolo” della comprensione.
Sto parlando dunque di Gà¼nter Grass, che in Sbucciando la cipolla, si è sbucciato o spellato da solo, e ha portato la sua pelle sul mercato. In questo senso si può interpretare la sua figura. Ma sto anche parlando della generazione a cui entrambi, Grass e io, apparteniamo. Sto parlando del breve spazio di tempo delle nostre vite e insieme dello spazio di tempo della storia più recente di questo Paese, che fino a poco fa era spaccato in due. Un frammento di vite di una generazione e di un Paese fino a ieri diviso, che non è stato innocuo, né esente da strappi, contraddizioni, fardelli del passato, scelte sbagliate o fallimenti. Dopo un’ampia opera narrativa che ha sempre evocato tutti questi temi, spesso in forma di fantasia, Gà¼nter Grass si è deciso tardi a trattarne in modo diretto, tirando in ballo se stesso. 
In questo libro trovo momenti, confessioni, ammissioni, ricerche su se stesso, che non voglio nominare una a una e che scavano più a fondo nell’essenza umana, nel carattere dell’autore rispetto ai libri precedenti. Sono momenti, confessioni e ammissioni che credo debbano essere stati ben più difficili e dolorosi da narrare della rivelazione della sua appartenenza – per qualche mese, e non volontaria – alle SS, come soldato diciassettenne.
Non voglio prendere alla leggera questa parte della sua vita più di quanto lui stesso non la prenda alla leggera, lui che scrive come «ancora oggi, dopo oltre sessant’anni, quella doppia S mi risulta uno spaventoso orrore». E lui che proprio per questo – vorrei dire soltanto questa frase – finora non era riuscito a parlarne. Lo si può accusare per un comportamento del genere, e mi pare che lo abbiano già  fatto oltre misura. Sicuramente lo hanno fatto scrittori che, vorrei sperare, hanno sempre affrontato con franchezza e libertà  gli errori e i lati più imbarazzanti della loro vita. Il fatto che molti di loro, soprattutto i più giovani, non si siano mai trovati davanti a conflitti di coscienza così profondi come abbiamo fatto noi della nostra generazione dipende dai cambiamenti storici e sociali avvenuti nel frattempo. 
Mi domando se l’ostinata voce critica e l’impegno civile costante di Gà¼nter Grass non abbiano contribuito oggi a ripagarlo con la moneta del disprezzo di quanti, dopo la sua confessione, parlano di “istanza morale”. 
Io che a lungo sono stata un’osservatrice dall’esterno, avrei augurato a Grass di ricevere in tante occasioni una maggiore solidarietà , quella stessa che lui in passato ha garantito ai colleghi, me compresa, che si sono trovati pubblicamente in difficoltà . Dico questo tralasciando di ricordare che una singola persona o una minoranza, che prenda posizione contro alcune derive negative nel proprio Paese, non si salva mai dalle critiche, prima o poi. Sempre si fanno avanti in molti, la maggioranza spesso, che attaccano ad alta voce e ingiustamente. Grass lo ha sperimentato più volte. Il Reich millenario rese per molti di noi credibile e condivisibile dal punto di vista emotivo una certa realtà . Questa condivisione fu poi liquidata con le solite scuse, per esempio quella di essere allora dei bambini facilmente influenzabili. Grass, forse a causa della sua grande sensibilità , non ritiene che quelle scuse siano valide anche per lui. Parlarne, rompere il silenzio, era una necessità  del suo animo, e adesso è riuscito nel suo intento, raccontando tutto in prima persona.
In questo tessuto di narrazioni, di rivelazioni, di dubbi e di riflessioni, in questo torrente di ricordi, dovrebbero restarci davanti agli occhi alcuni episodi che potrebbero colpirci e ferirci. Invece di condannare bisognerebbe cercare di capire, di confrontarsi con l’autore e anche con se stessi. Invece di porsi tante domande – scusate se è esigere troppo – dovremmo metterci alla prova con noi stessi. Ancora una volta, invece, abbiamo sprecato un’occasione di riflessione collettiva sul passato.
L’angoscia che questo libro ha scatenato in me è un’altra ancora. Grass racconta, dopo il suo addestramento militare come carrista della divisione SS “Joerg von Frundsberg”, della sua prima missione di guerra al fronte e di come imparò ad avere paura. Di come l’apocalisse gli si rovesciò addosso, di come non sparò mai un solo colpo e per tre volte scampò fortunosamente alla morte. È la guerra nel suo aspetto più spietato. Sono trenta, quaranta pagine. Dopo averle lette due volte, mi sono detta che in fondo avrei preferito saltarle. Sono pagine che anche Grass e con lui migliaia di reduci di guerra hanno “saltato” dentro di loro, hanno rimosso, nascosto, fatto passare sotto silenzio, come altri tedeschi, anche loro migliaia – i criminali di guerra – che poi tacquero sui loro crimini. Un’immagine mi appare davanti agli occhi e non vuole andare più via. Su una montagna di ossa, le ossa delle vittime assassinate, fu costruita la Germania del dopoguerra: sana, linda e fiduciosa in se stessa. Una nazione che preferì a lungo il silenzio. Anche questo possiamo imparare da questo libro, specialmente dalla sua descrizione del dopoguerra: quanto tempo fu necessario per prendere coscienza di fatti mostruosi, e quanto ancora per parlarne. E i più, lo sappiamo, non parlano mai.
Trasformare il non narrato o l’inenarrabile in parola di memoria è sempre stato uno dei compiti più difficili con cui gli scrittori si sono dovuti confrontare, raccontando la loro stessa vita. Gà¼nter Grass ha contribuito a questo compito mettendosi in prima linea. In questo libro descrive anche come abbia tratto le sue figure letterarie, a cominciare da Oskar col suo tamburo di latta, dalla vita reale, una vita che come ogni autore ha dovuto saccheggiare. Fino in fondo? Non del tutto. Restava qualcosa, non era stato ancora narrato tutto.
«Passò del tempo», egli scrive, «finché io capii appieno e, esitante all’inizio, ammisi con me stesso che incosciente o piuttosto senza volerlo sapere partecipai a un crimine che con gli anni non sarebbe divenuto più piccolo, che non sarebbe caduto in prescrizione, un crimine che ancora oggi mi fa sentire male». Questa lunga esitazione, la presa di coscienza, l’ammissione, è quanto Gà¼nter Grass descrive in questo libro. Mi auguro che i lettori siano pronti a seguirlo nel processo di chiarezza e riscoperta di loro stessi. 
Il testo viene pubblicato per gentile concessione della casa editrice Suhrkamp © Suhrkamp Verlag GmbH & Co. Kg, Berlin


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