Feticci parlamentari per la nuova oligarchia

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Diversi libri usciti negli ultimi mesi hanno messo a tema la questione, ormai difficilmente aggirabile, della crisi della democrazia: da Alfio Mastropaolo, col suo titolo eloquente (La democrazia è una causa persa?, Bollati Boringhieri) a Michele Ciliberto (La democrazia dispotica, Laterza), da Valentina Pazè (In nome del popolo, Laterza) a Luigi Ferrrajoli (Poteri selvaggi. La crisi della democrazia italiana, Laterza) senza dimenticare il numero speciale che al lemma «Democrazia» ha dedicato la rivista «Parole chiave». Sul tema interviene ora Alessandro Ferrara con un volume dal titolo Democrazia e apertura (Bruno Mondadori, pp. 160, euro 16). Di , che sposta un po’ il tiro rispetto alle tesi che finora hanno circolato di più.
Tanto per mettere subito a fuoco il punto di maggior differenza, Ferrara ci tiene molto a smarcarsi polemicamente da quanti ci propongono oggi una visione «catastrofista» della crisi democratica: la tesi cioè che la democrazia sarebbe ormai ridotta a un simulacro dietro il quale si cela il dominio pressoché totalitario dei poteri economici e finanziari. Per Ferrara la diagnosi sullo stato della democrazia oggi deve essere molto più duttile e articolata. Per un verso non nega i fenomeni di de-democratizzazione e di oligarchizzazione che sono sotto gli occhi di tutti. Tende però a darne una lettura un po’ differente. Il problema è infatti, secondo Ferrara, che nelle società  complesse in cui viviamo si sono determinate una serie di «condizioni inospitali» per la democrazia, delle quali non è difficile tracciare rapidamente una mappa. 
La democrazia oggi è sfidata, in primo luogo, dalle nuove concentrazioni del potere economico e finanziario; e inoltre dalla riduzione delle capacità  decisionali degli Stati-nazione di media taglia, costretti ormai a obbedire ai dettami di strutture e istituzioni sovranazionali; dalle trasformazioni della sfera pubblica, con la concentrazione degli strumenti di comunicazione in pochi grandi conglomerati globali; e infine dalla più generale accelerazione del tempo sociale che, imponendo decisioni rapide e comunicazioni in tempo reale, taglia il terreno sotto ai piedi a processi di consultazione e concertazione più democratici e inclusivi. 
Da cittadino a consumatore
La fotografia della situazione è certamente fedele; quello che però andrebbe sottolineato di più, a mio avviso, è che molti dei mutamenti ai quali Ferrara fa riferimento non possono essere letti come accadimenti più o meno necessari e determinati da una logica impersonale. Al contrario, essi costituiscono anche il risultato di una consapevole azione politica di «riduzione della democrazia»: una battaglia che inizia, negli anni Settanta, con l’attacco che alcuni politologi rivolgono contro il «sovraccarico di domande» della democrazia e che va avanti trionfalmente fino ad oggi con multiformi processi di verticalizzazione e di riduzione della rappresentatività  democratica. Basti qui ricordare solo alcuni di questi passaggi: la trasformazione dei meccanismi elettorali, lo svuotamento del ruolo del Parlamento, la riduzione delle condizioni sociali della cittadinanza, l’offensiva ideologica volta a trasformare il cittadino-lavoratore (il soggetto della costituzione repubblicana) in un semplice consumatore (da blandire con l’illusione della concorrenza e delle liberalizzazioni). Si è assistito insomma non tanto a mutamenti più o meno neutri, determinatisi fatalmente con l’avvento della società  globale, quanto piuttosto a processi di concentrazione di potere e ricchezza verso gruppi più ristretti; che certamente sono stati anche favoriti dal crollo del comunismo sovietico, dal suo impatto simbolico e dal suo lutto malamente elaborato.
In queste trasformazioni, l’aspetto che risalta più di ogni altro è la migrazione di molte decisioni politiche fuori dalle arene democratiche «domestiche», verso strutture sovranazionali, istituti tecnocratici, poteri sempre più lontani dai cittadini e dalla loro, peraltro già  ridotta, influenza. Molti hanno parlato a questo proposito, e in particolare con riferimento all’Unione europea, di «deficit democratico». Ferrara però non accoglie questa diagnosi: ritiene che sia più adeguato, e anche più coerente con la sua idea di «democrazia come apertura», vedere in queste novità  delle sfide, che certamente costringono la democrazia a ridefinirsi, ma non per questo ne sono la negazione. Certo, i processi della governance globale non hanno niente in comune con il governo democratico dello Stato-nazione novecentesco, controllato dal Parlamento e dai partiti. 
La tesi di Ferrara è che dovremmo guardare ad essi come al luogo potenziale di una seconda grande trasformazione della democrazia. Come la democrazia dei moderni, rappresentativa e stato-centrica, ha avuto poco in comune con quella ateniese, così la democrazia della governance avrà  poco a che vedere con quella a cui ci eravamo abituati; ma non è detto che debba essere meno democratica. Anzi l’affermarsi di nuove modalità  di coordinamento (auspicabilmente inclusive, plurali e aperte alle competenze) può essere più in sintonia con una visione «deliberativa» della democrazia di quanto non lo siano le rappresentanze partitiche e le maggioranze parlamentari. 
Qui forse Ferrara pecca un po’ di ottimismo; rischio che invece non corre, a mio avviso, quando ragiona sulle patologie che minacciano gli assetti democratici nazionali consolidati, e che potrebbero essere affrontate, a suo modo di vedere, riprendendo l’idea di una «nuova divisione dei poteri» lanciata qualche tempo fa dal giurista americano Bruce Ackerman.
Una nuova divisione dei poteri
La suggestione, non molto definita ma interessante per i punti che mette a fuoco, sarebbe quella di creare delle nuove «branche», o poteri, o strutture di monitoraggio e regolazione, deputate a intervenire su quei nodi che con gli strumenti delle costituzioni democratiche fin qui esistenti non sono stati risolti in modo soddisfacente: il nodo della giustizia sociale e delle effettive garanzie di essa, la tutela di un effettivo pluralismo e articolazione delle fonti di informazione e dei media, e infine la garanzia della trasparenza ed equità  delle procedure a tutti i livelli dell’amministrazione e della politica (esempi possono essere il contrasto alla corruzione nelle amministrazioni pubbliche oppure la regolazione di quanto e chi deve spendere nelle campagne elettorali). Anche se rifiuta visioni catastrofiste e guarda con un certo ottimismo ai processi della governance mondiale, quindi, Ferrara non si nasconde i molti limiti che gravano sugli istituiti storicamente sedimentati della democrazia reale. In sostanza ci dice due cose: che la democrazia nell’età  globale non se la passa troppo male, ma che comunque avrebbe bisogno di cure energiche. La prima tesi non mi convince molto, mentre sulla seconda sono totalmente d’accordo.


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