Emergenza, sindrome dell’8 settembre

by Editore | 9 Febbraio 2012 7:16

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Nelle emergenze nazionali l’evento storico più frequentemente evocato dai commenti è forse l’8 settembre del ’43 (immediatamente seguito da Caporetto), e non è del tutto sbagliato.Richiama incapacità  – o non volontà  – di previsione e di decisione, vergogne dei pubblici poteri, dissolvimento delle istituzioni, affannarsi generoso ma impotente di alcune parti, almeno, della società  civile. È parte anch’esso di una storia nazionale, e meno di tre anni fa a L’Aquila abbiamo fatto i conti di nuovo con la nostra difficoltà  ad imparare dalle esperienze del passato: sia da quelle positive che da quelle negative. Furono allora ignorati e osteggiati quel decentramento e quella capacità  di preservare identità  e memoria collettiva che erano stati centrali nel Friuli del 1976, e poi nelle Marche e nell’Umbria del 1997. E “scoprimmo” allora che era stata invece riproposta negli anni una scelta già  compiuta in precedenza con conseguenze pesantissime: la Protezione civile di Guido Bertolaso aveva infatti ampliato il proprio raggio d’azione ben al di là  delle emergenze. Si era fatta carico dei più diversi “grandi eventi”, e sin di quelli più estranei alla propria ragion d’essere. Esattamente come era successo con esiti disastrosi nella ricostruzione dell’Irpina, con l’allargarsi degli interventi (e degli sperperi, e degli intrecci fra corruzione, politica e cosche) sino ad aree e a questioni che con il sisma non avevano nulla a che fare. Quella deformazione stava per esser resa definitiva, estendendo a dismisura l’assenza di controlli e vincoli: quell’esito fu impedito all’ultimo istante non da un ripensamento del governo ma dalla provvidenziale pubblicazione di intercettazioni che rivelavano verminai. 
Di scelte, di decisioni soggettive stiamo dunque parlando. Non di un’eterna indole degli italiani ma di responsabilità  politiche: o meglio, di una irresponsabilità  della politica che ha lasciato segni profondi. 
Talora anche denunce di altissimo profilo rimasero inascoltate. Così fu proprio all’indomani del dramma irpino, quando il Presidente della Repubblica Pertini irruppe dai teleschermi nelle case degli italiani per denunciare carenze gravi dei soccorsi e per condannare al tempo stesso vergogne del passato. Disse con forza che non avrebbe dovuto ripetersi un altro Belice ma non ebbe ascolto. Pochi mesi dopo si svolse ancora sotto i suoi occhi, davanti al pozzo di Vermicino e nell’agonia di Alfredino Rampi, una rappresentazione della nostra impreparazione, inefficienza e improvvisazione. Era al tempo stesso l’annuncio di quanto i media stavano invadendo e trasformando il nostro vivere anche su questo terreno. La Protezione civile ebbe origine allora: era l’impegno ad un mutamento radicale, non più rinviabile. 
Certo, nel paralizzarsi delle città  e delle vie di comunicazione dopo nevicate molto meno drammatiche che in altri Paesi tutto sembra ripetersi negli anni, con poche variazioni. Nel gennaio del 1985, ad esempio, non si erano ancora spente le polemiche sull’imprevidenza di Roma che Milano veniva bloccata dalla “nevicata del secolo” (termine già  coniato in precedenti occasioni, per la verità ): e l’immagine inquietante di un’efficienza perduta veniva a turbare per un attimo il frenetico ottimismo della “Milano da bere”. 
In realtà  da noi sarebbero molto più necessarie che altrove misure di prevenzione, cure costanti e interventi metodici nei confronti dei territori a rischio: basti pensare allo “sfasciume pendulo sul mare” di cui parlava Giustino Fortunato più di un secolo fa per certe parti del Mezzogiorno. O alle basse terre gravitanti sul Delta del Po, bonificate da un lavoro plurisecolare ma inevitabilmente esposte alle insidie del grande fiume: dalle alluvioni ottocentesche raccontate da Riccardo Bacchelli ne Il Mulino del Po a quella del 1951, che diede una potente spinta all’esodo. Sino alla piena del 1994, ancora nella memoria. E naturalmente si pensi, per altri versi, alle aree devastate dalla speculazione o a quelle degradate dallo spopolamento. Eppure l’incuria è diventata col tempo quasi la regola: e troppo tardi e fugacemente ci interroghiamo su quel che avremmo potuto e dovuto fare. Come nella Sarno del 1998 o nella Valtellina del 1987 e molte altre volte ancora. L’elenco sarebbe davvero lungo e in molti casi il disastro, ben lungi dall’essere dovuto solo alla natura, è stato favorito o provocato da responsabilità  dirette e gravissime, come nel Vajont del 1963. 
Spesso, va aggiunto, le carenze istituzionali sono state parzialmente compensate grazie a un volontariato appassionato e generoso: è un termometro del Paese e c’è da allarmarsi se si allenta, se ci appare meno diffuso e vigile. E certo ha dato il meglio di sé quando ha potuto incontrarsi con istituzioni all’altezza dei loro compiti e con una più ampia partecipazione delle popolazioni. Non è accaduto spesso ma è accaduto: dalla Firenze invasa dalle acque del 1966 al Friuli di dieci anni dopo, e sino a tempi recenti.
La nostra storia ha dunque molti volti ma ci dice anche che la “sindrome dell’8 settembre” può essere sconfitta. La capacità  o l’incapacità  del Paese di attrezzarsi per far fronte alle emergenze è dunque un aspetto centrale. O meglio: è un elemento decisivo per una rifondazione della politica che abbia nel suo orizzonte non le prossime elezioni ma le prossime generazioni.

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