Draghi e Marchionne, gli alfieri della riscossa neoliberista
Certe espressioni di Draghi sono persino imbarazzanti. Dice il nostro: «Stringere la cinghia non ha alternative» perché il solo allentamento «scatenerebbe una immediata reazione dei mercati». Conseguentemente Draghi stila un certificato di morte del modello europeo, chiede di flessibilizzare ulteriormente il mercato del lavoro e difende a spada tratta la attuale politica di Angela Merkel. Pur riconoscendo che il fiscal compact ha l’effetto di frenare la crescita, il Presidente della Bce non ravvisa l’esistenza di alternative. Quando in chiusura l’intervistatore gli domanda quale sia l’indicatore che consulta per primo al mattino, risponde «la Borsa», mentre ammette che la questione della parità dell’euro gli interessa molto meno. Se ci si trasferisce sul Corrierone si può gustare una fluviale intervista di Massimo Mucchetti a Sergio Marchionne. In essa l’Ad della Chrysler-Fiat, oltre a sprizzare il solito veleno antiFiom, disegna così il futuro del mercato dell’auto e segnatamente del suo gruppo: «La Fiat ha scelto di rallentare il lancio dei nuovi modelli per la scarsità della domanda in Europa». In effetti le ultime rilevazioni ci dicono di un ulteriore crollo delle immatricolazioni del gruppo Fiat nel Vecchio Continente pari a circa il 16%, ma dire che si tratta di una scelta voluta e programmata è comportarsi come la volpe nella celebre favola di Esopo che non riuscendo ad agguantare l’uva sostiene che non è ancora matura (nondum matura est). Ciò che resta dell’industria automobilistica italiana dovrebbe quindi orientarsi con decisione alle esportazioni oltreoceano. E se non funzionano? Chiede ancora Mucchetti. Allora bisognerà chiudere due siti produttivi dei cinque rimasti della Fiat in Italia, risponde Marchionne. Lasciamo per il momento sullo sfondo la indispensabile considerazione che né in Europa, né negli Usa, e neppure nel resto del mondo, la fuoriuscita dell’economia reale dalla recessione può avvenire riproducendo gli stessi modelli produttivi e consumistici di prima, come la moltiplicazione delle vetture private in circolazione. E soffermiamoci invece sul fatto che precisamente qui che si realizza una congiunzione fra il «tedesco» Draghi e l«americano» Marchionne. Il primo è preoccupato solo dell’andamento dei mercati borsistici, non considera vitale una strategia di crescita economica dell’Eurozona, stronca perciò qualunque discorso sugli Eurobond, lascia che la Germania persegua indisturbata la propria politica neomercantile fondata sulle esportazioni e il surplus commerciale, reclama l’abbattimento di ciò che resta del modello sociale europeo e delle difese del diritto del lavoro, non si preoccupa infine della parità euro-dollaro, considerando quindi gradevole un ulteriore indebolimento del primo come in effetti sta avvenendo. Il secondo considera tutte queste condizioni – in particolare l’indebolimento dell’euro sul dollaro – perfettamente funzionali al proprio disegno di conquista di quote crescenti del mercato automobilistico statunitense, concentrandosi su politiche antisindacali di stampo no union di tipo preroosveltiano. Era già chiaro prima come il marchionnismo fosse la risposta di destra alla crisi dal punto di vista e a partire dalla impresa. Se non era del tutto evidente come questa si potesse saldare, con tutte le giunture e gli incastri in ordine, con le macropolitiche economiche degli organi dirigenti della Ue, queste due interviste sincronizzate ce lo svelano senza ombra di dubbio. Il che, almeno, dovrebbe convincerci che la lotta operaia e del mondo del lavoro torna a caricarsi di significati non solo anticiclici ma antisistemici. A cominciare dallo sciopero e dalle manifestazione indetti il 9 marzo dalla Fiom.
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