Disuguaglianza di Stato
Il problema centrale della democrazia italiana non è tanto la forte disuguaglianza nei risultati, nei punti di arrivo, quanto il peso che hanno su questi ultimi, quindi sui destini individuali, le disuguaglianze socialmente strutturate nelle condizioni di partenza, nelle risorse – materiali, culturali, di riconoscimento – necessarie non solo per sviluppare appieno le proprie capacità , ma per fare in modo che queste vengano riconosciute. L’origine sociale, inclusa quella territoriale, infatti, nel nostro più che in altri Paesi democratici e sviluppati, condiziona fortemente, per utilizzare il linguaggio di Amartya Sen, le possibilità di scegliere il tipo di vita che si vuole vivere.
Le disuguaglianze sociali fondamentali sono di due tipi. Esse riguardano da un lato l’accesso alle risorse materiali, dall’altro il potere di influire sulle condizioni di vita proprie e altrui e di ottenere riconoscimento. Tutte e due concorrono a disegnare una stratificazione sociale delle chance di vita che poco dipende dalle caratteristiche individuali e molto invece dallo status sociale attribuito al gruppo cui si appartiene, e alla cui appartenenza si viene appiattiti: perché donne, immigrati, di religione non dominante o senza religione, di colore diverso, di orientamento sessuale non standard e così via. Quando queste disuguaglianze sono cristallizzate al punto da costituire un serio impedimento alla possibilità di singoli e gruppi di sviluppare progetti di vita che vadano al di là dei confini segnati dalle posizioni di partenza, e di provare a realizzarli, siamo di fronte a una democrazia bloccata e a una gerarchizzazione delle possibilità di cittadinanza, con cittadini di serie A e di serie B. Le ricerche degli psicologi sociali hanno mostrato che chi appartiene ai gruppi sociali più svantaggiati ha non solo progetti di vita più ridotti, ma un orizzonte temporale su cui proiettarli più breve di quello cui si riferiscono coloro che sono più fortunati.
Come sostiene l’antropologo Appadurai, la capacità di aspirare, ovvero di sperare in, e lavorare per, un futuro migliore, è la risorsa insieme più a rischio e più preziosa per chi è economicamente e socialmente deprivato. È una capacità individuale, le cui condizioni tuttavia sono socialmente strutturate. In Italia queste condizioni sono particolarmente ridotte in molte zone economicamente e socialmente arretrate del Mezzogiorno. Il susseguirsi di fallimenti dello sviluppo e il perdurare di un’assenza dello Stato a favore di logiche politiche clientelari hanno non solo impedito la riduzione della povertà e delle forti disuguaglianze, ma anche ridotto le capacità di sperare attivamente e realisticamente in un futuro migliore. (…)
Non è tuttavia solo la povertà a produrre destini bloccati e cittadinanze imperfette. Come ha documentato anche un rapporto Ocse, l’Italia è uno dei Paesi sviluppati in cui non solo la disuguaglianza economica è più elevata, ma l’origine familiare conta di più per le chance di vita individuali, in primis sul piano del reddito e della ricchezza. Anche a parità di titolo di studio, ovvero anche se genitori in condizioni economiche modeste investono, a prezzo di sacrifici, per portare i figli allo stesso titolo di studio di chi ha alle spalle genitori più abbienti, la ricchezza e la posizione sociale della famiglia d’origine sono i fattori decisivi per determinare il livello di reddito e ricchezza dei figli. Si tratta di un indicatore di una democrazia e una cittadinanza molto imperfette, nella misura in cui non realizzano la promessa di una corsa ad armi pari, senza handicap insuperabili. È la conseguenza dell’eccesso di affidamento alla redistribuzione intrafamiliare a fronte di una scarsa, oltre che squilibrata, redistribuzione sociale. Se l’intensità della redistribuzione intergenerazionale della disuguaglianza – di per sé un limite forte di ogni democrazia – non è un fenomeno nuovo, essa diventa insieme più drammatica e problematica per i destini individuali e per la stessa democrazia in un contesto, quale quello italiano attuale, caratterizzato da uno sviluppo bloccato. Anche i modesti «ascensori sociali» disponibili un tempo si sono ridotti se non sono spariti del tutto, riducendo le opportunità per le generazioni più giovani. E le politiche pubbliche sembrano accentuare ulteriormente le responsabilità di solidarietà familiare. (…)
La mancanza di riconoscimento pieno e di accesso a tutti i percorsi e chance di vita è stata storicamente l’esperienza delle donne: escluse dal potere sociale, ma spesso anche dall’accesso alle risorse culturali e simboliche, incluse quelle che consentono l’elaborazione di forme di (auto) rappresentazione autonoma. Inoltre, ancora oggi le donne, in Italia più ancora che in altri Paesi, hanno di fatto, ma per certi versi anche per legge (si pensi a talune norme invasive del corpo e della salute contenute dalla legge sulla fecondazione assistita), un diritto all’habeas corpus più ridotto di quello degli uomini. (…)
Una causa di cittadinanza imperfetta nel nostro Paese, infine, è anche la debole laicità dello Stato e della cultura politica dominante, senza particolari distinzioni tra orientamenti politici. La presenza del Vaticano nel cuore del territorio nazionale, la mancanza di un pluralismo religioso effettivamente paritario, unitamente a una classe politica insieme culturalmente povera e a democraticità debole, ha consentito e consente alla Chiesa cattolica italiana un potere di veto, di ricatto e di influenza sulle materie di suo interesse – dai cosiddetti «valori non negoziabili» al finanziamento alle scuole confessionali e alla loro trasformazione in «scuole paritarie», passando per gli sconti all’Ici e una distribuzione abnorme dell’8 per mille – impossibili altrove.
© 2012 RCS Libri S. p. A., MIlano
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