by Editore | 3 Febbraio 2012 8:33
Gli incidenti di Porto Said non sono, solo, il prodotto di una serata di ordinaria follia calcistica. Gli attori coinvolti, gli spettatori attivi e passivi, quelli interessati, sono molti nella drammatica rappresentazione andata in scena allo stadio della città del Canale. I primi protagonisti sono gli ultras locali. Come altrove, nella Serbia della guerra civile jugoslava o nelle curve dei nostri stadi, il legame tra ultras e politica è molto più stretta di quanto si pensi. Anche in riva al Nilo.
È noto che da mesi gli ultras sono in prima fila nella protesta contro militari. Occupando lo spazio lasciato vuoto dagli islamisti, in particolare quelli di filiera Fratelli Musulmani, trionfatori delle elezioni legislative insieme ai rivali di medesima matrice del radicale Nour; e, dai giovani di piazza Tahrir, attori “impolitici” che, dopo l’ebbrezza dei giorni della rivolta, hanno pagato la mancanza di organizzazione politica. I primi sono ormai nella piazza del potere; i secondi, delusi, hanno ripreso a frequentare quella virtuale. Così Tahrir è divenuta luogo di gruppi diversi. In particolare degli ultras, giovani che ricordano più i casseurs parigini di qualche decennio fa che i sofisticati blogger della rivolta. Giovani che quotidianamente sfidano i militari e il loro braccio armato nella strada, i poliziotti: anche a quella latitudine stigmatizzati come Acab (All cops are bastards, Tutti i poliziotti sono bastardi). Polizia che in questi mesi ha spesso abusato del potere e accentuato la repressione più verso le frange di piazza che nei confronti di quelle più compromesse con il passato regime.
In questo contesto sfruttare la rabbia giovanile, infiltrarla o lasciar agire, è gioco facile. Nello scontro allo stadio, trasformato in campo di battaglia, colpisce l’evidente passività della polizia, così come l’assenza nelle tribune del governatore di Porto Said e del capo della sicurezza locale. Tutto ciò lascia pensare, appunto, che si sia lasciato fare. Magari dopo aver sapientemente sobillato o provocato. Strumentalizzando la rabbia, indossando i panni degli ultras: o tutte due le cose insieme. Del resto, le forme della strategia della tensione sono varie. Obiettivo: mostrare al Paese come una fuoriuscita dalla scena dei militari, con il passaggio del potere ai civili, conduca inevitabilmente al caos. Anche nella vita quotidiana. Non a caso si discute in questi giorni se mantenere o meno lo stato d’emergenza.
La posta vera, comunque, sono le presidenziali di giugno. Le forze decise a sbarrare la strada ai fautori di un ridimensionamento del potere con le stellette, puntano su quel voto per giocare la partita decisiva. Non bisogna dimenticare che, in attesa della nuova Costituzione, l’Egitto resta una Repubblica presidenziale. E un candidato vicino alle forze armate che si presentasse come argine al caos e all’instabilità potrebbe avere delle chance se l’ordine pubblico continuasse a essere un problema. Più quella scadenza si avvicina, più sono prevedibili colpi di coda del blocco politico e sociale che ha governato l’Egitto per oltre mezzo secolo. Porto Said potrebbe essere solo un’anteprima di altri, più cruenti, spettacoli: destinati ad andare in scena se il negoziato sul futuro ruolo dei militari non andasse in porto.
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