DIECI ANNI DI MASSA CRITICA
MILANO – Dieci anni fa, a Milano, un gruppo di pazzi senza meta cominciò a pedalare di sera stravolgendo il ritmo di una città che è cambiata (in meglio) anche grazie all’uso della bicicletta – che è ben altro dall’essere «solo» il mezzo per muoversi più moderno e intelligente del mondo. Se qualcuno pensa che Critical Mass sia stata solo un’allegra apoteosi di ruote, telai e manubri per fancazzisti a spasso si sbaglia di grosso. Ne parliamo con Giovanni Pesce, un fomentatore degli albori che questa sera, con un po’ di nostalgia, inforcherà il suo mezzo per il solito appuntamento in piazza Mercanti (ore 22,30). Portate le candeline.
La bici è un’arte e i primi agitatori della Critical Mass l’avevano già capito dieci anni fa. Da allora come si è modificato l’immaginario della bicicletta?
Ciclismo e Artivismo improvvisamente erano diventati la stessa cosa. Critical Mass fin da subito si nutriva di immagini e arte. Flyer, poster, musica, poesia, illustrazioni, performance. Ricordo che a una delle prime CM milanesi si è presentato con la sua bici anche Berry McGee, uno dei padri della street art di San Francisco, adesso è diventato una star. Tra gli Artivisti di CM di tutto il mondo era costante un fitto interscambio di immagini per poster e di altri manufatti artistici che disegnavano una nuova estetica della bici. A Milano, e in seguito anche nelle altre città italiane, nascevano mostre, contest di poesia, rave, video installazioni, l’obiettivo era creare un nuovo immaginario e direi che la missione è perfettamente riuscita. I nuovi ciclisti hanno creato una nuova idea di bicicletta e di società che ha lasciato il segno, contagiando viralmente artisti, illustratori, grafici, designer, il tutto poi si è riversato nella moda, su youtube, nella pubblicità , direi che è stato un tassello molto importante per la creazione di un nuovo stile di vita. Non è un dramma se la bicicletta è di moda, anzi.
La prima sgambatella velorivoluzionaria è stata organizzata in inverno. Geniale questa cosa dell’epica invernale, la bicicletta per domare la città inospitale, non solo per rilassarsi con una scampagnata primaverile in compagnia dei bambini.
Era il 23 febbraio 2002. Dieci anni fa. Uno dei messaggi era che è bello vivere tutte le stagioni senza avere paura, prendendosi anche il vento gelato in faccia, fitness e rivoluzione, urban wilderness dicevamo per scimmiottare gli americani. L’idea era: perché fare gli sportivi solo in palestra o alla settimana bianca e non mentre si va a scuola o a lavorare? Milano è una città nordica che ha perso la propria identità locale fagocitata dal piattume climatizzato del tubo catodico, godiamocela lo stesso, saltando sulla bici anche al freddo e al gelo.
I ciclisti più fichi adesso le biciclette se le costruiscono da soli. Autoriparazione come filosofia scaccia crisi e meccanica ridotta all’osso per puntare all’essenziale, un’altra intuizione geniale questa.
La cultura D.I.Y. (do it yourself, fai da te) ha cambiato radicalmente l’uso e l’immaginario delle biciclette soprattutto nelle aree urbane. Gli esemplari autocostruiti sono bellissimi, la bicicletta è un esemplare unico, da collezione, un oggetto artistico ma alla portata di tutti, ognuno può farsi o ripararsi la sua in una ciclofficina pubblica. Non è un caso se la cultura del fai da te e dell’autocostruzione adesso è in piena esplosione anche commerciale.
Non mi sembra che CM abbia mai avuto a che fare con la politica ufficiale, insomma il vostro cavallo di battaglia non erano le piste ciclabili.
Direi di no. Invece di chiedere le cose direttamente al sindaco – e che sindaco avevamo… – Critical Mass si rivolgeva direttamente agli altri cittadini praticando una sorta di lobbying orizzontale. Non era una manifestazione rivendicativa, ero «solo» un gruppo di persone che usciva alla sera per bersi un bicchiere di birra o di vino, sempre in bicicletta e sempre partendo dallo stesso punto, proprio per darsi un appuntamento fisso senza tanti sbattimenti, se ci sei vai ti aggreghi e ti diverti… Sembra una cosa solo giocosa ma non lo è, perché così facendo i ciclisti agivano, e agiscono, sui modelli di consumo: un gesto individuale come quello di prendere la bicicletta e uscire, reso visibile e importante facendo «massa critica», è un gesto molto politico, è servito anche, o meglio dovrebbe servire, ad abbattere un tabù. Anche a sinistra.
Cioè?
Il tabù della supremazia «metalmeccanica». Critical Mass ha aperto un doloroso ma necessario dibattito anche a sinistra, laddove l’automobile è ancora considerata un feticcio, come se questi ultimi decenni di (im)mobilità insostenibile non avessero ancora insegnato niente. Il movimento – mai come in questo caso la definizione è perfetta – ha inaugurato un nuovo repertorio di argomentazioni, che sposta l’accento sulla nostra condizione esistenziale di schiavitù dell’automobile. Lo definirei ambientalismo estetico esistenziale: parla di esistenze recluse (ore e ore per rientare dal lavoro), interi popoli (il nostro soprattutto) che vivono incapsulati in ridicoli salottini semovibili, alienati dal territorio, bambini privati della propria libertà di deambulazione. In fondo lo smog è solo uno dei problemi, forse il minore. La civiltà dell’auto è un modello esistenziale, industriale, antropologico. CM ha cercato di alzare il livello del discorso, altrimenti sempre appiattito solo sulla questione sanitaria, lo smog appunto.
Direi anche che ha sprovincializzato il modo di vivere le nostre città .
Tieni presente che tutti i nuclei di CM erano collegati tra loro, e tutti in particolare con la città madre del movimento, San Francisco, non a caso una delle capitali mondiali dell’arte e del movimentismo. E’ un movimento non strutturato totalmente locale e globale al tempo stesso, un network di città costantemente collegate tra loro. Questa continua connessione è una tendenza del panorama culturale e mediatico contemporaneo, insomma è diventata roba per sociologi ed esperti di marketing. Sono passati dieci anni, ecco un’altra anticipazione dei tempi.
Un caso pionieristico di comunicazione virale, ma tra fanatici delle due ruote.
Oggi guerrilla marketing e viral communication sono diventate parole alla moda, le si studiano sui manuali di comunicazione aziendale. Per la CM, nata sull’esempio di Seattle, una comunità di ciclisti a inclinazione digitale, questo era il terreno naturale fin dal 2002. Giocare a nascondino con i media, farsi inseguire piuttosto che bombardare di comunicati le redazioni.
Lo spontaneismo puro del movimento su due ruote non è anche il suo limite?
C’è una profonda differenza rispetto ai tanti movimenti strutturati in comitati, esecutivi, assemblee. CM è una coincidenza organizzata, non una manifestazione tradizionale. La testa della CM non esisteva, decideva chi era presente in quel momento. Lo spontaneismo di strada aveva i pro e i contro, ogni tanto si scivolava nella provocazione pura e semplice, c’era sempre un piccolo atto di prepotenza, ma mai niente di importante, occupare la stada era un po’ come giocare a Davide contro Golia, con uno spirito giocoso, almeno una volta alla settimana.
Questi ultimi dieci anni valgono un secolo, il mondo è cambiato. Credi davvero che CM abbia lasciato il segno?
Sì, la «massa critica», almeno quella su due ruote, ha mostrato il volto epico e poetico della bici, ha ridato dignità ai ciclisti urbani uscendo dal territorio delle rivendicazioni politiche classiche (niente petizioni, presìdi sotto il municipio, lettere al sindaco…). E questo atteggiamento, paradossalmente, le ha dato ancora più peso politico. Come è successo negli anni Sessanta per i Provos di Amsterdam. Sono loro, gli artivisti olandesi che hanno creato le condizioni di consenso per inventare la Amsterdam moderna che ancora oggi è un punto di riferimento per tutte le città che si vogliono europee. A Milano, per esempio, la bici cresce del 20% ogni anno, e questo successo lo si deve anche a Critical Mass.
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