by Editore | 20 Febbraio 2012 9:03
La comunità internazionale, mobilitata dalle riunioni del G20, reagì giustamente, utilizzando tutti i mezzi per sostenere la domanda: politica monetaria espansiva e non convenzionale, rilancio budgetario.Fu grazie a questa reazione che il mondo evitò di sprofondare nella depressione. A posteriori, l’equazione si comprende facilmente. Per vari anni i mercati finanziari avevano sopravvalutato gli attivi, e incitato le famiglie e le imprese a indebitarsi. Quando i prezzi sono tornati a toccare terra, il settore privato si è reso improvvisamente conto di essersi indebitato oltre misura, dato che il valore del suo debito era rimasto immutato, mentre quello delle rispettive contropartite (azioni, immobiliare ecc.) stava crollando. Non c’era altra scelta che rientrare dal debito: per le famiglie riducendo i consumi, e per le imprese attraverso tagli di investimenti e manodopera. Ora, gli aggiustamenti di ognuna di queste due categorie si ripercuotono sull’altra, costringendola a ridurre ulteriormente la spesa. Le imprese sono costrette, dopo un adeguamento iniziale (dovuto ai consuntivi in calo) a procedere a nuovi adeguamenti, a fronte del restringimento dei loro sbocchi; e al tempo stesso l’aumento della disoccupazione induce le famiglie a una sempre maggior parsimonia, sia per necessità , sia a titolo preventivo. Occorreva dunque rompere questa spirale depressiva, come si è fatto, con massicci interventi pubblici, i soli in grado di porre termine alla serie degli aggiustamenti al ribasso. Così l’aumento della spesa pubblica (deficit budgetario) ha compensato ovunque il maggior risparmio privato.
Ma il processo di rientro dal debito del settore privato è lungo e doloroso, costellato di fallimenti, delocalizzazioni, strette del credito e perdita di proventi fiscali. I governi devono mantenere i nervi saldi davanti all’aumento del debito pubblico (di 30 punti del Pil negli Stati Uniti, e “soltanto” di 16 punti del Pil in Europa), per non cedere a loro volta alla tentazione di un rientro troppo precipitoso dal debito. Ma dovrebbe essere liberi di farlo. E non è così in Europa, dove se i debiti sono sovrani, la moneta non ha sovrano. La frammentazione del debito europeo in altrettanti debiti nazionali non protetti da una banca centrale spalanca le porte all’arbitrio dei mercati, pronti a discriminarli a seconda della valutazione dei rispettivi rischi. Da qui l’importanza che hanno assunto da noi gli istituti di valutazione, cioè le agenzie di rating, pure pressoché inudibili in altri contesti (Stati Uniti, Giappone, Regno Unito). Alla crisi europea viene così ad aggiungersi una crisi dei debiti sovrani, che induce gli stati membri a un’austerità ancora maggiore.
In mancanza di un accordo per “riparare” la Costituzione europea – facendo della Bce una banca centrale a pieno titolo e mutualizzando il debito, per rendere impossibile l’arbitraggio dei mercati (così come a suo tempo la moneta unica – la mutualizzazione delle monete – aveva posto fine alla speculazione sui tassi di cambio intra-europei) – nel quadro dei Trattati attuali gli Stati europei sono inoltre costretti al rientro dal debito. E qui hanno origine i timori di una recessione europea.
Ma nessun governo può imbarcarsi in una strategia senza speranza. Bisogna allora volgere un male in bene, e sforzarsi di trovare nelle costrizioni che ci troviamo a subire i mezzi per fare qualcosa di utile: riforme a costo zero, in grado di rafforzare le economie nazionali per renderle più competitive; puntare sulla produzione francese, greca, italiana, portoghese, spagnola ecc., nella speranza di vendere in altri Paesi, non potendo contare su una domanda interna doppiamente imbrigliata, da un lato dalla prosecuzione del rientro dal debito privato, e dall’altro dal maggior prelievo fiscale e dai tagli alla spesa pubblica e sociale per ridurre il debito pubblico. Il concetto di competitività rimane però relativo, e le politiche volte ad accrescerla non possono riuscire tutte simultaneamente: per alcuni la guerra commerciale porterà inevitabilmente a una sconfitta. La frammentazione dei debiti conduce così a un’altra frammentazione, quella delle politiche, a tutto danno dell’interesse generale europeo. La generalizzazione del rigore riduce gli sbocchi in Europa: un presupposto quanto mai negativo per l’incremento delle esportazioni di ciascun Paese. Certo, una maggior competitività potrebbe consentire all’Europa di conquistare spazi in altre regioni del mondo, le quali però dispongono di un’arma per contrastarla: quella del deprezzamento del tasso di cambio.
In altri termini, l’aumento della produzione (cioè dell’offerta) ha bisogno di sbocchi per divenire effettiva. Ora, eravamo partiti dalla constatazione del deficit della domanda. Questo testa – coda delle strategie europee – lottare contro un’insufficienza della domanda attraverso una politica di austerità , con il fine di aumentare l’offerta – è, quanto meno, enigmatico. Il Pil dell’Eurozona resta tuttora inferiore di un punto a quello del 2008. E cosa ci riserva il futuro? Si potrebbe arguire che a lungo termine una politica dell’offerta potrà dimostrarsi benefica. Ciò è indiscutibile – ma a condizione che consenta di aumentare il capitale delle nazioni e di accrescerne la produttività . Ora, l’austerità in periodo di crisi porta alla distruzione di capitale umano (disoccupazione, precarietà , esclusione). E sebbene non siamo in grado di misurare questo capitale, esso rappresenta una determinante essenziale ai fini dell’offerta produttiva presente e futura. Ecco perché le politiche dell’offerta e della domanda sono così intricate e difficili. Se oggi è necessario ridurre l’indebitamento degli Stati, il rientro non può avvenire a discapito della crescita potenziale di domani. Solo grazie a politiche di investimento, volte ad alimentare la domanda di oggi e a promuovere l’offerta di domani, si potrà far uscire l’Europa dal circolo recessivo in cui si trova. Ma come si fa ad aumentare la produzione e migliorarne la qualità senza investire?
Nel 1929, all’indomani della crisi, il governo britannico pubblicò un libro bianco noto sotto il nome di The Treasury View, nel quale si affermava in sostanza che una politica di investimenti pubblici non avrebbe avuto altro effetto che quello di degradare le finanze dello Stato, mentre una buona gestione poteva fondarsi solo sull’equilibrio budgetario. Si sa com’è andata a finire. A otto decenni di distanza, l’Europa si riallinea a quella stessa opinione. La quale però, fortunatamente, stavolta non è condivisa dal resto del mondo!
Traduzione di Elisabetta Horvat
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