Da Mann a Monti l’importanza di chiamarsi ancora Mario

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Non è più come negli anni Ottanta, quando Enzo Jannacci cantava: «Maaarioo, non ti resta che l’amore, Maaarioo, ma hai capito la canzone». E Mario pareva un nome disperato, un grido di dolore, un’emarginazione a tempo indeterminato. L’onomastica fiuta lo spirito del tempo, si adegua al successo o abbandona all’insuccesso chi quel nome se lo porta sulle spalle.
Quando Mario (Segni), dopo aver vinto un referendum, perse il biglietto della lotteria, scese su di lui il silenzio. Mariotto divenne una contrazione, un singulto, un penoso fantasma. E che dire di quell’altro Mario (Chiesa) che dall’albergo Pio Trivulzio di Milano mise in moto una catena di eventi che sconvolse la politica italiana? Da qualche settimana Mario è tornato a essere il nome più richiesto. Più apprezzato. E non solo in quanto Draghi è andato a dirigere le sorti economiche dell’Europa. Ma anche perché a Monti è toccato il compito difficile di mettere ordine nel caos, tra le paure italiane. Per non parlare di Balotelli – eternamente in bilico tra il talento indiscutibile e l’immaturità  di saperlo gestire – risorto e chiamato a dare man forte alla nazionale italiana.
Thomas Mann ambientò in Italia (era il 1930) il racconto Mario e il Mago. Quest’ultimo, un tal Cavalier Cipolla, si mostrava ricco di trucchi e temibile ipnotizzatore. Pratiche ben note ai capipopolo che hanno attraversato i nostri anni più recenti. Che credemmo fossero brillanti, quando in realtà  furono solo colorati di fuliggine. Silvio, rimembri?


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