CULTURA UMANISTICA BENE DA PROTEGGERE
Sulle sorti della cultura umanistica In Italia – dalla letteratura alla filologia, dalla storia alla filosofia, dall’arte all’archeologia – si è aperta una discussione sempre più accesa. Dubbi e interrogativi sono stati suscitati da una serie di questioni specifiche, ciascuna in sé di portata limitata, ma che nell’insieme sembrano indicare una chiara linea di tendenza: una netta preferenza per le “scienze dure” a danno della cultura umanistica.
Per la guida dell’ANVUR ad esempio – la nuova Agenzia nazionale per la valutazione della ricerca – il ministro Gelmini ha scelto sei esperti su sette nei settori tecnico-scientifici e una sola studiosa che si avvicina agli altri saperi. Ma la valutazione di un testo filosofico, di una narrazione letteraria o di una ricostruzione storica, in cui la densità del linguaggio costituisce a volte un elemento cruciale, è profondamente diversa da quella di un articolo scientifico in cui contano soprattutto l’informazione sul procedimento seguito e l’indicazione quantitativa dei risultati raggiunti esposte nell’inglese della comunità scientifica internazionale.
Intorno ai metodi di valutazione è partita, perciò, una vasta mobilitazione nel timore che fosse adottata per tutti un’impostazione modellata sui prodotti scientifici (come criteri bibliometrici, metodi quantitativi ecc). Ciò non ha impedito che alla fine risultasse impossibile eliminare un’equiparazione tra articoli su riviste e volumi monografici che gli umanisti considerano penalizzante. Non si può certo parlare di ostilità preconcetta verso gli studi umanistici da parte dei membri dell’ANVUR che, anzi, mostrano attenzione e rispetto per tali studi, come emerge dall’intervista, di qualche settimana fa, a Repubblica di Sergio Benedetto. Ma la loro buona volontà potrebbe non bastare.
La tendenza a privilegiare i settori tecnico-scientifici, infatti, è sempre più diffusa, come conferma anche l’orientamento dei finanziamenti nazionali per la ricerca. I bandi PRIN e FIRB di quest’anno, ad esempio, prevedono condizioni adatte soprattutto alle discipline scientifiche e rinviano a priorità europee modellate nello stesso senso. Privilegiando i gruppi di lavoro più numerosi e le ricerche più onerose, si penalizzano studi umanistici che raggiungono spesso l’eccellenza grazie a piccoli gruppi e senza grandi attrezzature. Più adatto ai settori scientifici appare anche il nuovo regolamento dei dottorati di ricerca, che obbliga più università a consorziarsi tra loro, ad impegnare un alto numero di docenti e trovare ingenti risorse finanziarie. Tendenze simili, infine, sono emerse anche nel recente dibattito sull’abolizione del valore legale del titolo di studio, segnato da una certa passione ideologica e poco attento ai legami tra i nostri atenei e il sistema universitario europeo.
Nelle resistenze ai cambiamenti si nascondono sempre una certa nostalgia per i bei tempi passati, che in realtà tanto belli non erano, e la paura di misurarsi con le sfide della storia o, quantomeno, con le urgenze del confronto internazionale. È pienamente comprensibile che si punti oggi sulla ricerca tecnico-scientifica per accrescere la competitività del sistema-Italia, mentre è giusto sottoporre a valutazione l’operato, ad esempio, di filologi romanzi o filosofi morali come si fa per ingegneri elettronici o chirurghi cardiovascolari.
Non c’è dubbio, inoltre, che si debba puntare di più su competenze e meriti anche nell’impiego di laureati in lettere o in giurisprudenza all’interno della pubblica amministrazione. Non ha senso, però, perseguire questi obiettivi penalizzando altri saperi che per sopravvivere non hanno bisogno di ingenti mezzi ma solo di maggiore attenzione.
Anche la cultura umanistica, infatti, ha legami profondi con il sistema paese che sarebbe rischioso recidere. Stiamo parlando di un vastissimo patrimonio, di un’eredità plurimillenaria, della sostanza profonda di ciò che chiamiamo Europa ed Italia. In tutti i paesi occidentali è noto che senza le humanities è difficile avere buoni cittadini e senza le tradizioni dell’umanesimo laico e di quello religioso non si sarebbe mai formata un’identità italiana. La poesia e la letteratura, la storia e la geografia, la filosofia e l’arte e tanti altri saperi – che solo un giudizio superficiale può ritenere “inutili” – nascono e fioriscono anche in luoghi diversi da quelli accademici, ma beneficiano della ricerca e dell’insegnamento universitari più di studi tecnico-scientifici sostenuti dall’industria privata.
È perciò necessario rilanciare anche la cultura non riconducibile alle “scienze dure” e monitorare in questo senso la ristrutturazione del sistema universitario avviata dalla riforma del 2010. Nel complesso, malgrado perplessità e resistenze, il mondo degli studi umanistici sta accettando la sfida della valutazione della ricerca, con la speranza che la serietà e il rigore possano aiutare il rilancio di una tradizione culturale tanto importante in Italia. Sarebbe un danno per tutti se questa speranza venisse delusa.
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