La Fine della Civiltà  Capitalista Così tramonta un paradigma, non solo un modello economico

by Editore | 27 Febbraio 2012 2:26

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Bisognerebbe chiedere a Joseph Schumpeter. Lui, forse, saprebbe dirci se la distruzione in corso è ancora »creatrice», oppure se il capitalismo (come il comunismo, secondo la nota critica berlingueriana) ha definitivamente esaurito la sua «spinta propulsiva». Lo pensavo qualche giorno fa, ascoltando Monti a Milano. Il premier parlava alla comunità  finanziaria, con l’aria di chi predica in terra d’infedeli: i Salotti Buoni «hanno difeso l’esistente, impedendo la distruzione creatrice schumpeteriana». Ti guardi intorno, e in questo scorcio di millennio, almeno in Occidente, ti sembra di vedere solo macerie. Recessione e disoccupazione, disagi e disuguaglianze. Dov’è la “creazione”, in mezzo a bolle finanziarie e immobiliari, che si gonfiano ed esplodono mietendo vittime tra i deboli? Dov’è il capitalismo “per sua natura congiunturale”, come diceva Galbraith, capace di rigenerarsi continuamente da se stesso? 
In cerca di risposte, si moltiplicano libri e riflessioni. Economisti, storici e filosofi. Latitano i politici, ma questa è la costante della fase. Tra gli ultimi saggi, ne segnalo uno che colpisce più di altri. Racconti della civiltà  capitalista. Lo scrive per Laterza Guido Carandini, mescolando i suoi diversi saperi: dal lavoro imprenditoriale a quello intellettuale. Non un agile pamphlet sui guasti dell’oggi, ma un lungo viaggio a ritroso nelle alterne vicende del capitalismo industriale di ieri, che ti fa leggere con occhio diverso quelle del capitalismo finanziario di oggi. Rovistando proprio tra le macerie di otto secoli di storia, Carandini riscrive il grande racconto del capitalismo con un “nuovo paradigma”, che Thomas Kuhn definirebbe “sistemico”. Per capire il fenomeno capitalistico non basta più una sola dimensione, l’economia. Servono invece tutte le dimensioni del vivere: filosofia e politica, scienza e religione. Perché dal XII secolo in poi, tutte le sfere della società  occidentale ricevono l’impronta del capitale, che le marchia a fuoco. 
Ex comunista e deputato del Pci, studioso di Marx e del marxismo, Carandini parte dall’assioma del maestro di Treviri: “L’essere sociale determina la coscienza umana”, e non il contrario. Di lì, con una contaminazione che abbraccia Fernand Braudel e Jacques Le Goff, Marc Bloch e Immanuel Wallerstein, sviluppa la sua tesi, intorno alla quale costruisce una “reinvenzione della storia”: il capitalismo, per questa parte di mondo, è molto più che un sistema di governo (o “sgoverno”?) dell’economia. Molto più del mercato, della libera competizione, del conflitto tra le forze concorrenti. Molto più della stessa democrazia. E’ una vera e propria forma di “civilizzazione”. Può sembrare un’ovvietà , mutuata magari proprio dalla valutazione “quantitativa” di Bloch, quando scrive che “tutte le fasi più lunghe della storia si chiamano civilizzazioni”. Otto secoli filati di egemonia capitalista sono abbastanza, per confortare questa teoria. Ma è sul piano “qualitativo” che l’operazione si fa più audace e suggestiva. Riconoscere fino in fondo l’equazione capitalismo=civiltà  ha implicazioni illuminanti, e soprattutto inquietanti, nella rilettura della vicenda umana che ci porta alla cosiddetta “modernità “. 
Il nuovo “paradigma” di Carandini poggia su quattro pilastri, che aiutano a ricostruire la storia degli ultimi ottocento anni: la potenza, l’accumulazione, la religione e la scienza. Sono queste le “leve” della storia del capitalismo. Lo generano, lo plasmano, lo trasformano e infine lo snaturano. Ai suoi albori, il pre-capitalismo è una versione basica dell’economia di mercato: vendere per comprare, scambiando per soddisfare i bisogni di sostentamento e di consumo. Poi muta, si sofistica: comprare per vendere, trasformando il denaro in merce e ritrasformando la merce in denaro. Così l’economia di mercato diventa circolazione capitalista. La nuova “civiltà ” non è più ottimale soddisfazione dei bisogni individuali e collettivi, ma perseguimento e accumulazione del massimo dei profitti. La novità  dell’analisi di Carandini è che la metamorfosi comincia molto prima di quanto si pensi. Almeno cinque secoli in anticipo, rispetto alla Rivoluzione Industriale. Già  nella Venezia dei borghesi del 1200, come poi nell’Olanda dei mercanti, la “potenza” del capitale contiene in nuce l’embrione delle sue evoluzioni/involuzioni successive. 
Un filo rosso (o nero, fate voi) unisce quei primordi al meglio e al peggio dei secoli a venire. C’è “potenza” (la prima “leva”) nei Padri Pellegrini che nel 1620 sbarcano con il Mayflower nel Nuovo Mondo, propiziando il primo Boston Tea Party del 1773 e la Dichiarazione d’Indipendenza del 4 luglio del 1776. C’è “potenza” nella Rivoluzione Francese e nella Dichiarazione dei Diritti del 1789. La “scoperta” dei diritti genera democrazia, la democrazia genera libertà , la libertà  genera “accumulazione”. Questa “leva” (la seconda) getta le basi per le future tragedie novecentesche. La società  massificata, nei consumi e nei costumi, è alla radice dei fascismi europei. Per Carandini, con un coraggio analitico che si fa quasi temerario, persino il comunismo e la sua nemesi (il crollo del Muro), è in qualche misura il compimento delle condizioni primarie tipiche della potenza e dell’accumulazione capitalista. La Rivoluzione d’Ottobre di Lenin è “rivoluzione per la potenza”, che ha come obiettivo la crescita dell’economia e del reddito nazionale. E pazienza se per raggiungerlo, prima Vladimir Ilic Uljanov, poi Josip Giugasvili Stalin, fanno 25 milioni di morti. Anche in Urss, in quell’abisso di Terrore, la logica del capitalismo “era in agguato”, e il socialismo occultamente e inconsciamente era assoggettato a una logica dell’industrializzazione tecnicamente imposta dal capitalismo occidentale. 
In questa chiave, Carandini ci costringe a ripensare il capitalismo storico non più solo come trasposizione pratica di libera concorrenza, free trade, mercati in equilibrio. La storia del capitalismo, viceversa, è anche storia di commerci di rapina, di guerre sanguinose, conquiste coloniali, schiavitù e sfruttamento. Spinta dalla “potenza”, giustificata dalla “religione” (scrive Max Weber che “il capitalismo è una pratica religiosa di vita”) e accelerata dalla “scienza” e dall’innovazione tecnica e tecnologica, l'”accumulazione” ad ogni costo permea le menti individuali e i comportamenti collettivi. Così il capitalismo storico genera dentro se stesso la barbarie e la violenza. Fino al nazismo e all’Olocausto. Fino alle mafie e alle criminalità  organizzate. Più banalmente, il capitalismo contemporaneo compie l’ultima mutazione, e si fa “inciviltà “. Sconfitte le avventure totalitarie, “domina oggi un mondo diviso tra sprechi di ricchi e privazioni di poveri, un’etica cieca del profitto acuisce il conflitto tra capitale e lavoro, e non colmerà  l’abisso tra la sazietà  e la fame”. Carandini non ci lascia troppi margini per sperare. Restiamo tuttora immersi nelle “fedi ideologiche”. Weber si sbagliava, quando immaginava che la “brama immoderata” non fosse l’essenza del capitalismo, e sognava che quest’ultimo ne fosse il “razionale temperamento”. “Greed is good”, è il motto di Wall Street, mentre a Main Street si soffre e di piange. “Solo la forza della democrazia può imporre limiti all’avidità  di oligarchie affariste e promuovere una crescita più equa”. Verissimo. Ma oggi c’è un problema, gigantesco: le democrazie per il popolo hanno lasciato il campo alle tecnocrazie senza popolo. E il vero scontro di civiltà , ormai, non è più tra Islam e Occidente, e nemmeno più tra politica ed economia. È tra economia e democrazia. 
Chiudo il libro appagato, ma con una domanda finale che resta senza risposta. Per Francis Fukuyama la crisi del comunismo coincise con la fine della storia. Da quel saggio famoso, uscito nel 1992, le cose sono andate un po’ diversamente. Oggi, con un criterio valutativo uguale e contrario, possiamo azzardare che la crisi del capitalismo coincide con la fine di una civiltà ? Non so dirlo. Ma so che il capitalismo finanziario di questi anni (per parafrasare i Balcani di Churchill) consuma molta più storia di quanta ne produce. Così non può reggere. Fosse vivo, lo direbbe anche Schumpeter.

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