Così nell’Ottocento i matematici costruirono un altro spazio

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Nel gennaio del 1962 Michael Atiyah, all’epoca un giovane ricercatore, domandò a un ancor più giovane ricercatore, Isadore Singer, perché una certa quantità  geometrica fosse un numero intero. La sorpresa risposta fu: “Perché me lo domandi? Lo sai meglio di me!”. Ma ancor più sorprendente fu la controrisposta: “C’è una ragione più profonda!”. Il cammino comune iniziato da quello scambio sfociò qualche mese dopo nel famoso “teorema di Atiyah e Singer”, che valse al primo la medaglia Fields nel 1966, e a entrambi il premio Abel nel 2004. 
La storia è uno degli aneddoti preferiti di Claudio Bartocci, che ne ha raccontato i dettagli nel capitolo “Le ragioni profonde della matematica” del collettaneo Vite matematiche (Springer-Verlag Italia, 2007). E la ricerca delle “ragioni profonde”, questa volta della costellazione di idee e risultati che hanno portato nell’Ottocento al parricidio di Euclide e alla creazione della geometria non euclidea, costituisce ora il filo conduttore del suo primo, sapiente e profondo libro da autore: Una piramide di problemi. Storie di geometria da Gauss a Hilbert (Cortina). 
Bartocci, come si sarà  capito, è un matematico: un geometra algebrico, per la precisione. Ma mai precisione è stata tanto imprecisa, quanto quest’angusta definizione di un intellettuale che realizza concretamente l’ideale astratto descritto dalle espressioni “uomo di multiforme ingegno”, “umanista rinascimentale” e polymath. Bartocci sembra conoscere tutto e lo dimostrano due sue opere di curatela. Da un lato, l’originale raccolta di Racconti matematici (Einaudi, 2006), che spazia da Borges e Cortà¡zar a Pynchon e Saramago. E, dall’altro lato, l’enciclopedica Grande Opera in quattro volumi La matematica (Einaudi, 2007, 2008, 2010 e 2011), di cui ha pazientemente commissionato e personalmente editato il centinaio di contributi, assommanti a 3.467 pagine di testo! 
Non stupisce che, con la sua voracità  di lettore, un sesto del suo nuovo libro consista di una bibliografia di 60 pagine, modestamente descritta come “senza alcuna pretesa di completezza”, e “limitata ai testi consultati”. Un apparato così sterminato è giustificato dalla convinzione programmatica di Bartocci, che “l’evoluzione delle idee matematiche non segua né un cammino lineare e progressivo, né un percorso accidentato attraverso un paesaggio di concezioni universalmente condivise, ma sia al contrario un pulviscolo costituito da una miriade di traiettorie più o meno autonome, vicoli ciechi e piste sotterranee, che si intrecciano in un labirinto pluridimensionale, dalla topologia incerta e mutevole”.
All’interno di questo labirinto, Bartocci traccia un percorso diacronico e uno sincronico, rispettivamente di lunga e di breve durata. Il primo, che gli serve a stabilire le colonne d’Ercole temporali della sua Odissea nello spazio geometrico, parte da un risultato di Euclide che tutti abbiamo imparato a scuola, anche se molti se lo saranno dimenticato: il fatto che due triangoli con la stessa base e la stessa altezza, hanno la stessa area. 
Con quest’ultima espressione, “avere la stessa area”, noi intendiamo di solito che, per i due triangoli in questione, il prodotto della base per l’altezza (diviso per due) è lo stesso. I Greci, invece, intendevano anche che si possono scomporre i due triangoli in uno stesso numero di pezzi uguali. Più precisamente, che si può scomporre uno dei due triangoli in un numero finito di triangolini, che si possono poi ricomporre nell’altro triangolo. 
L’analogo tridimensionale dei triangoli, sono i tetraedri: cioè, le piramidi a quattro facce triangolari, che Dante chiamava “tetragoni” e usava in senso figurato, come nel verso “tetragono ai colpi di ventura”. I Greci sapevano che due tetraedri con la stessa base e la stessa altezza hanno lo stesso volume, ma la dimostrazione di Euclide non è per niente immediata, com’era invece nel caso dei triangoli. Nel 1899 David Hilbert chiese se si può sempre scomporre uno dei due tetraedri in un numero finito di tetraedrini, che si possono poi ricomporre nell’altro tetraedro. La risposta è no, e la diede quello stesso anno Max Dehn. 
Il libro di Bartocci si apre con il problema dei triangoli, e si chiude con quello dei tetraedri, a indicare che alcuni fili del tessuto della matematica percorrono tutto il suo ordito, dall’antichità  alla contemporaneità . Il corpo del suo discorso è però dedicato, nel secondo percorso, a dipanare l’aggrovigliata matassa della geometria dell’Ottocento, da lui stesso definito «il secolo “lungo” nel quale affondano le radici della nostra modernità ». 
L’aggrovigliamento è duplice. Da un lato, infatti, i fili dei contributi individuali si intrecciano fra loro, completandosi a vicenda come tessere parzialmente sovrapponibili di un grande puzzle. Dall’altro lato, vari fili escono da quel particolare groviglio per penetrare in altri, contribuendo a dare un’impressione non ingenuamente romantica, ma maturamente realistica, della matematica come un “groviglio di grovigli”. E Bartocci si dedica, con perizia e acume, a mostrare “gli avventurosi percorsi di ricerca che conducono ai teoremi, le questioni che in tutto o in parte li motivano, le idee che li innervano, il nugolo di interrogativi che ne scaturiscono”. 
Scorrono così, nei nove capitoli e nelle 85 pagine di note, le quasi millenarie intuizioni del matematico poeta Omar Khayyam, più noto al mondo per le sue Rubaiyat. Le anticipazioni ignare di padre Girolamo Saccheri, che credeva di rifondare Euclide mentre lo stava minando. Quelle semiconsce di Johann Lambert, che come Mosè intravide la Terra Promessa senza riuscire a entrarci. I risultati maturi di Gauss, tenuti segreti per “non sollevare le strida dei Beoti”. Le uscite allo scopertodi Jà nos Bolyai e Nikolaj Lobacevskij, oggi considerati gli scopritori ufficiali della geometria non euclidea. E i modelli di Eugenio Beltrami, alcuni ritrovati per vie traverse da Felix Klein e Henri Poincaré, che permisero di visualizzarla.
Ma le analisi più raffinate Bartocci le dedica ai due veri protagonisti del suo libro: Berhard Riemann e David Hilbert. Al primo, per le connessioni tra il suo pensiero matematico e quello filosofico di Johann Herbart: un singolare esempio di un possibile fecondo interscambio tra le due discipline. E al secondo, per i suoi ormai classici Fondamenti di geometria del 1899, che aprirono in sequenza la strada alla metamatematica, ai teoremi di Gà¶del e Turing, e dunque in ultima analisi all’informatica! A dimostrazione dell’assunto fondamentale di Bartocci, che la matematica del passato “non è morta e imbalsamata, copia derisoria di se stessa come la triste tigre impagliata di un museo zoologico d’antan, ma è al contrario ancora palpitante di vita”.


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