Cie di Ponte Galeria: nella “grande gabbia”, tra divieti e pericolo di rivolte
ROMA – “Questo non è un resort a 5 stelle, è un luogo dove è limitata la libertà personale per detenzione amministrativa”. Con queste parole Maurizio Impronta, dirigente dell’Ufficio Immigrazione della Questura di Roma ha aperto le porte del Centro di identificazione e di espulsione di Ponte Galeria ai giornalisti, dopo la rimozione del divieto di accesso alla stampa stabilito dal precedente governo e annullato dal ministro dell’Interno Cancellieri. Anche grazie alla campagna “LasciateCIEntrare”, nata nel 2011 proprio per rimuovere la circolare n.1305 del Viminale con il sostegno dell’Fnsi e dell’Ordine dei giornalisti, stanno aumentano le richieste dei reporter alle prefetture per raccontare la realtà dei Cie. Si aprono i cancelli dei centri di detenzione, dove sono rinchiusi i migranti che non hanno ottemperato all’ordine di lasciare il territorio nazionale perché non in regola con il permesso di soggiorno. Con l’ultimo pacchetto sicurezza del governo Berlusconi la reclusione nei Cie è stata estesa dai sei ai 18 mesi, come in un vero carcere.
Ma da sempre i Cie sono molto meno accessibili di un penitenziario. Spesso la tensione all’interno è alta. Rivolte, incendi e fughe restano confinati alle brevi di cronaca cittadina, mentre sono un elemento da indagare per comprendere le politiche migratorie.
“Nel passato abbiamo avuto rivolte finalizzate alla fuga che i trattenuti hanno messo in atto con scontri all’interno del centro”, ha ammesso Improta. Il momento più difficile è stato ad agosto, quando i Cie italiani sono stati riempiti di tunisini arrivati a Lampedusa dopo il 5 aprile. In base a un’ordinanza della Presidenza del Consiglio è stato dato il permesso di soggiorno umanitario a tutti i tunisini arrivati entro quella data, giorno in cui sono stati siglati gli accordi per i rimpatri con il governo di transizione a Tunisi. La possibilità di restare in Europa è stata negata a tutti gli altri. “Ad agosto abbiamo avuto 4 tentativi di fuga, di cui 2 riusciti, ma poi li abbiamo ripresi tutti quanti – ha spiegato il dirigente di polizia – sono stati tutti denunciati per devastazione e incendio doloso, il 50% erano evasi dalle carceri tunisine”.
Il Cie è superblindato. Sorvegliato dalla polizia, cui sono assegnate le funzioni ispettive, dall’esercito che si occupa della vigilanza con delle camionette sparse lungo tutto il perimetro e tiene d’occhio una serie di monitor e telecamere, dai carabinieri e dalla finanza, che scorta i detenuti. Questo gruppo interforze fa capo all’ufficio Immigrazione della questura. Per ogni turno ci sono fra i 20 e i 25 agenti e militari. Gestire un Cie non è semplice, le rivolte sono continue, non solo ad opera dei giovani della primavera araba che si ribellano al sistema delle frontiere europee. La psicosi da rivolta è tale che gli agenti hanno impedito ai giornalisti presenti (le telecamere Rai di Unomattina, quelle del Corriere della Sera e Redattore Sociale) di parlare con gli uomini rinchiusi nella sezione maschile. “Tutti vorrebbero rilasciare interviste e se si crea il caos o disordini non avremmo le forze per intervenire”, è stata la motivazione addotta dagli agenti. Al di là delle sbarre si accalcavano uomini di ogni provenienza. Qualcuno mostrava le ciabatte dicendo che gli hanno tolto le scarpe, qualcuno urlava di essere stato picchiato e minacciato dagli agenti. I poliziotti a loro volta sostenevano che a essere stati minacciati dai reclusi sono i giudici di pace nelle udienze di convalida del fermo. Come tanti animali in gabbia, alcuni dei 140 uomini senza permesso di soggiorno del Cie di Ponte Galeria cercavano di fare sentire la propria voce ai giornalisti. Un africano con i capelli bianchi urlava e cantava a squarciagola in inglese, ballando a cielo aperto nella sua cella. Sembrava avesse problemi psichici, ma non è stato possibile verificarlo. “Si cerca di evitare di fornire felpe con il cappuccio per evitare il travisamento durante le rivolte, anche se alcuni trattenuti li hanno comunque”, hanno spiegato i funzionari di polizia. Vietati anche i videofonini. Niente immagini e video dall’interno per i reclusi del Cie.
I Cie e la stampa. Sul fronte della stampa, rimane la dicrezionalità dei prefetti nel rilasciare le autorizzazioni e nella gestione delle visite. A Roma le troupe hanno potuto trascorrere cinque ore nel Cie sotto la supervisione dei responsabili della Questura e della Prefettura, con la possibilità di intervistare almeno le donne. A Torino lo scorso 26 gennaio due giornaliste, Milena Boccadoro (Rai, Tgr Piemonte) e Ilaria Sesana (Terre di mezzo) hanno potuto solo vedere le gabbie dall’alto di un terrazzo dopo aver passato tutto il tempo della visita chiuse in un ufficio con i responsabili del centro da cui hanno ricevuto dati e versioni ufficiali. Una limitazione all’accesso alle informazioni che ha suscitato la doppia protesta degli organizzatori della campagna “LasciateCIEntrare” e della Federazione nazionale della stampa. “Non e’ accettabile che gli operatori dell’informazione debbano ancora subire pesanti restrizioni nell’accesso alle informazioni su una realtà così importante e sconosciuta ai cittadini – aveva detto in quell’occasione Roberto Natale, presidente dell’Fnsi – non è tollerabile che l’accesso dei giornalisti si riduca alla sola possibilità di acquisire la versione dei soggetti istituzionali. La nostra campagna continuerà fino a che la censura sui Cie non sarà stata rimossa e sarà possibile garantire accuratezza e trasparenza dell’informazione”. (raffaella cosentino)
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