Chi sono gli americani che non si fidano dell’Europa

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Il precedente direttore, il portoghese Antonio Borges, già  nel board della Bocconi, si è dimesso all’improvviso due mesi fa per ragioni mai chiarite veramente. Da allora il Fondo ha affidato la guida delle operazioni di salvataggio forse più difficili della sua storia a Reza Moghadam, nato a Teheran e formatosi a Oxford; uno dopo l’altro i tecnici originari dell’area-euro hanno traslocato verso altri uffici dell’Fmi e in apparenza potrebbe essere un paradosso. L’Europa aveva appena combattuto una lunga battaglia diplomatica per imporre ancora una volta una propria rappresentante, la francese Christine Lagarde, alla guida del Fondo.
Se dunque il dipartimento europeo è sempre meno tale per il passaporto delle donne e degli uomini nello staff, è probabilmente perché la mano che pesa di più nell’organizzazione è quella di David Lipton. Da pochi mesi Lipton è il numero due di Lagarde. Già  consigliere internazionale alla Casa Bianca di Barack Obama e banchiere a Citi, Lipton aveva avuto la sua prima esperienza a Washington nell’amministrazione di Bill Clinton.
Ma questi sono tempi in cui neanche un americano liberal e internazionale si fida più dell’Europa e della sua esasperante complessità . Figurarsi dunque i repubblicani con molte meno miglia aeree oltremare nel loro curriculum: lo scorso novembre, quando sembrava che l’Italia non sarebbe riuscita ad evitare una richiesta di aiuto al Fondo, al Congresso per esempio sono fiorite proposte di legge nelle quali gli europei sembravano quasi nemici da sottoporre a un regime di sanzioni. Jim DeMint, senatore repubblicano della South Carolina, ha raccolto 44 firme (anche di leader congressuali) per ritirare 100 miliardi di dollari di contributi americani all’Fmi pur di non prestare denaro all’area-euro in crisi. Una misura del genere non passerà  mai in plenaria nei due rami del Congresso, perché i democratici non sono pronti ad appoggiarla. Ma anche loro a maggio 2010 avevano sostenuto un emendamento in Senato che, in teoria, impedisce all’amministrazione di prestare tramite l’Fmi a Paesi europei il cui debito sia considerato insostenibile.
A due anni dall’inizio della crisi del debito, l’Europa oggi negli Stati Uniti unisce democratici e repubblicani in una miscela di incomprensione e fastidio. Non è la reazione nazionalista di una superpotenza che si sente sfidata nella competizione fra grandi valute globali. È un’irritazione, stavolta, terribilmente pragmatica. Martin Feldstein, decano dei grandi economisti americani e consigliere di Ronald Reagan, già  nel ’92 e poi nel ’97 aveva previsto che le falle nella struttura della moneta unica avrebbero rischiato di affondarla. Ma oggi anche lui si limita a indicare i rimedi possibili: una temporanea svalutazione dell’euro e le misure necessarie a far crescere la produttività  e la tenuta di bilancio in Italia e Spagna. Neanche Paul Krugman, il premio Nobel e columnist del New York Times, perde una sola occasione di sbeffeggiare gli europei (soprattutto i tedeschi) per quella che lui ritiene la diagnosi sbagliata e la terapia sbagliata alla crisi del debito. Da economista liberal, compagno di studi di Mario Draghi al MIT di Boston negli anno ’70, Krugman è convinto che il terremoto europeo sia alimentato dalle divergenze di competitività  e nell’indebitamento privato, non nei conti pubblici. Ma nemmeno lui si augura la fine della «concorrenza» dell’euro sul dollaro. Se qualcosa accomuna Krugman con i candidati repubblicani delle primarie che ogni giorno criticano l’Europa, è una sorta di sordo risentimento. Proprio quando l’America inizia a recuperare dopo la Grande Recessione, l’inettitudine di questa parte dell’Atlantico può far saltare di nuovo le speranze di ripresa.
Federico Fubini


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