Celan, l’oltranza della poesia al cospetto della storia

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È il 1948. Paul Celan pubblica a Vienna la sua prima raccolta di poesie, La sabbia delle urne e subito decide di ritirarla e mandarla al macero. Non soltanto la vicenda biografica caratterizzata dalla morte dei genitori nei campi di concentramento nazisti e il peregrinare senza patria, ma anche la sua carriera poetica è quindi segnata sin dall’inizio da uno strappo. Ma al di là  degli aneddoti alimentati dallo stesso poeta, il ripensamento di Celan riguardo La sabbia delle urne ha a che fare con il significato poetico dello stile a lui divenuto familiare e adottato in parte nel suo libro d’esordio, uno stile vicino alle elaborazioni dell’avanguardismo – in particolare il surrealismo di Paul à‰luard – svolte nei circoli letterari di Bucarest e di Vienna. 
Come suggerisce anche Giuseppe Bevilacqua che ha curato il «meridiano» delle sue Poesie (Mondadori 1998), Celan manifesta preoccupazione per il fatto che le forme della sua prima raccolta e più in generale della sua fase giovanile possano avere troppo a che vedere con una sfida meramente estetica, con un modo di fare poesia attraverso il «poetico» maturato nella temperie culturale tra gli anni venti e l’inizio degli anni quaranta. Proprio mentre rende manifesti i personali frutti di quella complessa e variegata koinè poetica con considerevole successo di attenzione critica, Celan concepisce l’idea che quel tipo di modernismo poetico, e soprattutto l’avanguardia che ormai stava raggiungendo punte di vero manierismo, si debbano misurare con gli avvenimenti, i significati e le insensatezze dell’epoca a partire dall’esperienza individuale. Un’epoca che, per la sua inaudita ferocia, non ha più bisogno di essere straniata o resa ulteriormente surreale attraverso una poeticità  guidata da manifesti e gruppi. 
A spingere Celan al rifiuto di La sabbia delle urne è dunque il rischio che in questa raccolta la sua poesia possa essere identificata con una sorta di «arte per l’arte» interessata a ricalibrare la ricorrente esigenza di originalità  del modernismo o la logica movimentista tutta interna agli svolgimenti delle poetiche che si disputavano quel che rimaneva dell’avanguardia. Tutta la sfida che l’avanguardismo portava all’estetica per Celan doveva diventare una più generale sfida al linguaggio e all’etica – una sorta di indagine sulla possibilità  o impossibilità  storica di entrambi. E a tal proposito è importante ricordare che considerazioni analoghe Celan le fa anche per Osip Mandel’stam, segnato come lui dalla storia politica fino alla morte nel gulag e del quale appena allora si stava scoprendo l’opera – Celan è tra i primi suoi traduttori. 
Mandel’stam, secondo Celan, era stato troppo superficialmente e riduttivamente accostato al movimento avanguardistico russo dell’Acmeismo e ciò aveva celato la portata più profondamente storica della sua poesia. Dopo la magistrale traduzione di Bevilacqua delle raccolte pubblicate in vita insieme alle prose in La verità  della poesia (Einaudi 1993), e dopo la versione delle poesie scritte in clinica uscite sotto il titolo Oscurato (Einaudi 2010), nonché la scelta di componimenti postumi Sotto il tiro di presagi (Einaudi 2001) e la traduzione della corrispondenza con Ingeborg Bachmann Troviamo le parole (Nottetempo 2010), le Poesie sparse pubblicate in vita (a cura di Bertrand Badiou e Barbara Wiedemann, edizione italiana a cura di Dario Borso, con un saggio di Andrea Zanzotto, Nottetempo, pp. 148, euro 8) hanno il merito di apportare ulteriore chiarezza al percorso poetico di Celan. 
Incrociando gli estremi del suo itinerario e cioè tra il periodo che precede la rinnegata raccolta La sabbia delle urne e il 1970, anno della morte del poeta, i componimenti di Poesie sparse usciti in origine su riviste e mai accolti nei libri pubblicati in vita, offrono la possibilità  di capire meglio da un lato le ragioni che inducono Celan al gesto eclatante di ripudiare la sua prima silloge e dall’altro aiutano a comprendere l’idea di poetica che Celan, a partire dalla cesura del 1948, decide di perseguire. Si può misurare tale svolta poetica mettendo a confronto le prime quindici poesie del libro, scritte fra 1941 e 1945, con quella del 1949 Come il tempo si dirami e le successive. Quello che nelle prime è uno spaesamento ammiccato, a volte palesemente costruito, fatto di oggetti immagini tardo art déco e neo-rilkeane – drappi, armature, dardi, lance, scudi, allori sulle tempie – nei componimenti scritti dopo il 1948 si silenzia. Non si trovano sequenze lussureggianti ed esotiche come «Soltanto tu sei qui d’argento. / E piangi a sera la farfalla purpurea. / E ti lamenti della nube con la fiera. (…) Come farà  chi su celeste ghiaia, / danzò con le ninfe, lieve, / a non pensare che una freccia di Artemide / nel bosco ancora vaga e infine lo raggiungerà ?». Nei testi successivi al 1948 i significati si contraggono, la poesia si volge a se stessa per condensarsi a volte in dichiarazioni di etica della parola come avviene proprio nel componimento Come il tempo si dirami. Scrive Celan: «il mondo più non sa. Dove intona l’estate, / un mare ghiaccia. // Donde vengano i cuori, / sa l’oblio. / In cassa, armadio e scrigno / il tempo cresce vero. // Forma una bella frase / di grande dispiacere. / In quel determinato posto / sarà  certo per te». 
Poesie sparse ospita anche un articolo del 1990 di Zanzotto che pur non disponendo allora della quantità  e qualità  di traduzioni e studi accumulatisi nel corso degli anni, aveva comunque còlto l’inaudita oltranza cui Celan aveva saputo sottoporre la poesia al cospetto della storia. Scrive Zanzotto: «L’avvicinamento alla poesia di Celan è sconvolgente. Egli rappresenta la realizzazione di ciò che non sembrava possibile: non solo scrivere poesia dopo Auschwitz, ma scrivere “dentro” queste ceneri piegando questo annichilimento». 
Il “dopo Auschwitz” evocato da Adorno e richiamato da Zanzotto non è soltanto una constatazione critica esterna alla poesia di Celan. Tra Adorno e Celan ci fu un confronto a distanza che produsse reciproche influenze ricostruite nel libro di Paola Gnani, Scrivere dopo Auschwitz. Paul Celan e Theodor Adorno (Giuntina, 2010) e documentato dallo scambio epistolare ora tradotto in italiano nel volume Theodor W. Adorno, Paul Celan, Solo, con me stesso e le mie poesie. Lettere 1960 – 1968 (a cura di Joachim Seng, traduzione di Roberto Di Vanni, Archinto, pp. 88, euro 15). 
Un incontro vero e proprio, benché più volte programmato, non ebbe mai luogo come invece avvenne con l’altro filosofo che Celan lesse con attenzione e cioè Martin Heidegger. Ma a differenza di Heidegger, l’incontro mancato con Adorno ha prodotto risultati meno sibillini e dai quali si possono trarre con maggior sicurezza elementi significativi del più generale rapporto culturale e storico tra poesia e filosofia nella seconda metà  del ‘900. Gli scritti di Seng che accompagnano la raccolta di lettere tra Adorno e Celan non costituiscono solo un contributo fondamentale per capire come il poeta e il filosofo si siano via via riposizionati riguardo al verdetto di Adorno sull’impossibilità  dell’arte dopo Auschwitz, ma offrono anche tutti gli elementi per stabilire un’epocalità  imprescindibile per chi voglia entrare nelle questioni della poesia e della filosofia dalla fine della guerra ad oggi. 
Una questione ad esempio è quella che si potrebbe definire come l’appropriazione indebita, da parte del modernismo, dei luoghi del negativo evocati dalla poesia di Celan: il silenzio, la distruzione, l’indicibile, il trauma. Come se questi elementi prima soltanto teorizzati nel modernismo avessero trovato, dopo il verdetto di Adorno e dopo la Shoah, anche una sorta di giustificazione storica tale da elevare il negativo dell’estetica modernista a fondamento metafisico insuperabile.
Quello stesso fondamento che Celan medesimo ha l’esigenza di superare per rendere possibile la testimonianza e che induce Adorno, campione del modernismo estetico, a rivedere, pur se moderatamente, la sua posizione come si evince in uno dei Paralipomena alla postuma Teoria estetica dove definisce quella di Celan come «lingua della pietra e della stella» e in un passo dellaDialettica negativa in cui scrive: «Il dolore incessante ha tanto diritto a esprimersi quanto il martirizzato di urlare; perciò forse è falso aver detto che dopo Auschwitz non si può più scrivere una poesia».


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