Auguri, Charles Dickens, tu che racconti il nostro declino
Cosa ha in comune il nostro tempo con il suo? Come mai si rincorrono, come mai giocano tanto a farsi da specchio, due società così diverse come quella in cui visse e scrisse Dickens e la nostra? L’Inghilterra, Londra, il capitalismo al tempo del suo assestamento, acerbo e feroce, che va stabilendo allora le sue gabbie, i suoi alti muri che si vogliono impenetrabili perché si sanno fragili, tenuti su con la paura: le sue classi sociali, la borghesia che ha appena depositato i suoi valori a uso di tutti, il proletariato prigioniero della precarietà di una esistenza sempre sul punto di cedere alla morte e la galassia di sotto, il sottomondo, il mondo degli straccivendoli, dei mendicanti, delle prostitute, dei delinquenti, degli usurai e dei poveracci, quel mondo rapace che a uno sguardo dall’alto sembra ingombrare buona parte della scena e che, nella sua postura da avvoltoio, sta pronto a trascinarti, a risucchiarti giù, sia che tu sia un onesto lavoratore, sia che tu sia un buon borghese, un bambino di buona famiglia, una cara ragazza.
Perché ci sembra tanto simile quella Londra alla società che andiamo conoscendo? Perché il processo di stabilizzazione del capitalismo ci sembra, negli effetti, così simile alla sua crisi, al suo declino che vediamo in atto senza sapere dove porterà ? C’è una prospettiva per la quale la discesa e la salita sono la stessa cosa. Anche la nostra società , a colpo d’occhio, è dominata dalla paura. La paura dell’assedio del sottomondo, dei ladri, degli assassini, dei drop out, dei poveracci. Paura che ci invadano, paura che ci devastino la casa, paura che trascinino via i nostri figli, ma alla resa dei conti paura di diventare come loro, di scivolare giù, di perdere quello straccio di forma più importante della vita stessa in cui si è irrigidita e immiserita la nostra identità . Mai il morso della paura è stato così violento. Mai la mobilità sociale verso il basso è stata così temuta. Mai forse la sottoproletarizzazione oltre che terrore, è stata esperienza indicibile eppure condivisa di così vasti strati. Le cellette borghesi, piccolo borghesi, micro borghesi, che si vogliono sempre più impenetrabili, visibilmente fanno acqua da tutte le parti, hanno perduto ogni riferimento, hanno smarrito la forma. Resta soltanto l’appello «ma se io non sono meglio di un poveraccio (a scelta: di uno zingaro, di un immigrato, di una puttana di strada) di chi sono meglio?». Un rigurgito di dignità che trova la sua ultima espressione nei forconi, negli incendi, ma che dura dal tramonto all’alba e oltre quello, basta, è finita, nessuna dignità , nessuna forma, tutti giù nel calderone del sottomondo.
Certo, la nostra paura è più ardente. Nel mondo che racconta Dickens la mobilità sociale va verso l’alto e verso il basso. Dickens ha la fortuna di vedere suo padre rovinato, la sua famiglia d’origine in carcere, di lavorare in fabbrica e poi di vedere i suoi cari liberati dai ceppi, suo padre di nuovo in corsa, ha la fortuna di riprendere a studiare, di ritrovare le sue sicurezze e da lì ripartire alla conquista di un posto centrale nella società . La fortuna nel mondo di Dickens racconta il subbuglio di una società produttiva, in espansione, che come abbatte, risolleva il destino di un uomo. L’esperienza della mobilità sociale verso il basso, ma anche in risalita, che Dickens ragazzino si fa sulla sua pelle e sulle ossa, è la fortuna che gli permette di scrivere con disinvoltura, respirando a pieni polmoni, senza lo sguardo sorpreso o giudicante, rigido o indagatore di chi nel mondo operaio, nei bassifondi, ci va apposta, a studiare. Dickens usa a man bassa gli strumenti formali messi a punto dalla tradizione e dai suoi contemporanei, li usa tutti, dal picaresco al sentimentale, dal melodrammatico al terrifico. È perché si è appropriato di questi strumenti che può tenere tutto insieme, dalle ville recintate alla feccia, restituendo i nessi, con precisione e leggerezza. Se nessun dettaglio preso da vicino è proprio credibile nelle narrazioni dickensiane, l’insieme è la rappresentazione straordinaria di un mondo e dei suoi processi.
Certo Dickens ha nelle sue corde, lì che aspetta, il lieto fine. Segno di una società borghese ancora baldanzosa al quale il nostro autore è squisitamente organico. La nostra condizione è diversa: tragico o lieto che sia, facciamo fatica a concepire il finale. La mobilità sociale che abbiamo conosciuto, noi scrittori e intellettuali italiani, è stata quasi sempre verso il basso. Però, va detto, che il nostro degrado non ci ha privato della penna, né della possibilità della lettura. Dal modernismo che va ancora seminando, alle infiorescenze postmoderniste, ai fiori di serra della letteratura di genere: gli strumenti formali che abbiamo a disposizione sono numerosissimi. Come Dickens, abbiamo conosciuto mondi che sembravano preclusi al nostro ceto d’origine, li abbiamo conosciuti perché ci siamo scivolati dentro, non solo perché ci siamo andati con intento etnologico. Ne sono venute fuori indagini preziose. Ma le indagini raccontano lo stato delle cose. Il romanzo – quello strumento agile, onnivoro, resistente alle rigidità ideologiche, multiforme, duro a morire, che è il romanzo – è capace, anche nelle sue forme più disinvolte, come in Dickens, di legare le storie, i ceti sociali, gli eventi collettivi, in una catena che ne rivela il senso; è capace, ben giocato, di rivelarci i processi, di dirci non solo “così va il mondo”, ma anche dove sta andando. Ed è sempre lì, disponibile: un gioco pronto a essere giocato un’altra volta.
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