AMORE, FEDE E IMMIGRAZIONE IL KUREISHI AMERICANO

by Editore | 2 Febbraio 2012 7:20

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NEW YORK – Se le parole sono pietre che cosa saranno mai i nomi? Ayad Akthar è tutta la giovane vita che si porta dietro questo nome e cognome da intifada: anche se vai a spiegarglielo agli americani che col Medioriente lui c’entra poco perché viene da Milwaukee, Wisconsin. Perfino l’accento è quello tipico del midwest. E quando gli dici che è vero, come ha scritto il New York Times, che le avventure meticce di American Derwish rimandano a quelle di Jumpa Lahiri, ma a noi italiani, che lo conosciamo meglio, ricordano soprattutto Hanif Kureishi – fra l’altro pakistano d’origine come lui – Ayad risponde gentile: “Non li conosco personalmente ma conosco i loro lavori: e sono lusingato dal paragone con questi scrittori straordinari. Ma io tendoa pensarmi piuttosto nella tradizione americana di artisti come Philip Roth e Woody Allen – perfino Seinfeld”, che sarebbe l’eroe di un famoso serial qui. “Ecco, quella è la sensibilità  che ha formato la mia carriera artistica”.

Un pakistano che si rifà  alla commedia jewish? Orrore! Ayad Akthar, con quel nome, è proprio una bestemmia per l’America che stanca di Barack Obama vorrebbe richiudersi su se stessa. Ma lui stesso scrittore, attore, sceneggiatore e regista, è la prova vivente che non bisogna chiudersi mai. Sette anni fa il pakistano del Wisconsin, classe 1970, aveva dato scandalo e fatto il pieno di critica con The War Within, il film che raccontava la radicalizzazione di un uomo normale che si scopre terrorista. (Anche qui: sembra una storia parallela al Fondamentalista riluttante di Moshin Hamid.

E il solito Ayad: “Non lo conosco personalmente ma lo rispetto profondamente”). Però invece di tornare a cavalcare il tema, come il successo lasciava supporre, ha smesso la cinepresa e passando al computer ha tirato fuori questo romanzo di formazione in cui, finalmente, la guerra di civiltà  non è più (solo) tra noi e loro, chiunque noi siamo e chiunque gli altri siano, ma (anche) tra noi e noi e loro e loro. American Dervish, in italiano forse un po’ troppo sdolcinatamente tradotto La donna che mi insegnò il respiro (esce per Mondadori) è la storia di un ragazzo, Hayat, musulmano americano, che viene sverginato, intellettualmente parlando, dall’amica d’infanzia di sua madre, Mina, in fuga dal Pakistan e innamorata dell’America di Henry Miller e Scott Fitzgerald, oltre che di un radiologo ebreo.

Ma come: neppure un pizzico di jahad, un giro di fatwa, il tocco di un kamikaze? Ayad se ne libera con una splendida finta: sposta tutta l’azione negli anni ’80, molto prima che fosse nulla più come prima. Escamotage? “Volevo scrivere di un tempo in cui l’essere musulmano non era ancora politicizzato. Sentivo che in questo mondo avrei potuto raccontare una American story più universale, la storia di una rottura e della riscoperta della tradizione, una storia di immigrazione e di fede”. E’ la storia di un musulmano perché la sua tradizioneè quella là .

Ma poteva essere appunto quella di un ebreo. O di un evangelico del Wisconsin.

E già . La gente glielo chiede ancora: che ci facevano i pakistani nel Wisconsin?E qui sembra quasi di risentire la vecchia battuta di Massimo Troisi, costretto a difendersi quando qualcuno lo apostrofava lassù al nord: “Emigrante? No, turista…”. Racconta lo scrittore: “I miei genitori vennero in America come medici grazie a un programma di studio, che li fornì di biglietti d’aereo, lavoro, passaporto e alloggio. Come sono cambiati i tempi, eh?”.

Al New York Times, American Dervish è piaciuto così tanto che il giornale ha pubblicamente auspicato l’arrivo di un sequel. Ma per ora può attendere. Piuttosto sembra un pre-quel quello che Ayad ha nel cassetto. Il libro si chiama Viennae stavolta sì che “haa che fare tanto con quel primo scontro di civiltà : la fermata dei turchi alle porte della città “.

Un altro spartiacque, cinque secoli fa: un altro escamotage per aggirare l’11 settembre? “Continua ad appassionarmi l’idea di come i moderni musulmani, nati in occidente, gestiscano il fatto di essere musulmani e occidentali allo stesso modo”. Chiaro, no? Ayad-Woody ci prova. Ma viva Iddio e viva Allah (e pure Jahvè): i nomi, come le parole, restano pietre.

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