by Editore | 19 Gennaio 2012 8:29
La possibilità di attacco militare contro l’Iran è ormai apertamente dibattuta negli Stati uniti. Mentre le voci aggressive si intensificano, noi che apparteniamo alla generazione nata nel mezzo della guerra tra Iran e Iraq non possiamo fare a meno di ricordare la tragedia di quegli otto anni di spargimento di sangue, così radicati della nostra mente. Sono le immagini che perseguitano la nostra generazione, e spiegano come il regime in Iran abbia usato la guerra per rafforzare il suo controllo sul paese. Nonostante oggi molti fattori socio-economici e politici siano diversi, noi crediamo che, se attaccato, il regime iraniano userebbe le stesse tattiche per reprimere il dissenso e assicurare ancora una volta la sua autorità .
Nati entrambi nel 1985, ricordiamo perfettamente la fase finale della guerra Iran-Iraq e le sue conseguenze. Il suono dei bombardamenti aerei su Tehran e dintorni, le notti in cui cercavamo riparo nei rifugi pubblici del quartiere. Rammentiamo i volti preoccupati dei genitori quando il suono delle sirene d’allarme, assordante per le nostre orecchie di bambini, squarciava l’aria. Ricordiamo quando guardavamo dai balconi i cortei funebri, le bare, la disperazione delle madri in lutto.
Uno dei primi eroi che ci fu presentato alla scuola elementare era un ragazzo di 13 anni di nome Hossein Fahmideh. Imparavamo tutto sulla sua storia e il suo atto eroico, fatto in nome dell’Iran e della Rivoluzione islamica. Ci veniva detto che era tra i molti giovani ragazzi che avevano raccolto la chiamata al martirio. Il clero al potere gli aveva promesso un posto in paradiso. Il martire Fahmideh, così noi lo conoscevamo, si era legato delle granate alla cintura e si era gettato sotto un carro armato iracheno per fermare la sua avanzata in territorio iraniano. Siamo cresciuti ascoltando ricordi costanti del coraggio di Fahmideh e di molti altri come lui che hanno sacrificato la loro vita in difesa della nostra «terra islamica».
A noi ragazze veniva chiesto di controllare i nostri veli in modo da non deludere il martire Fahmideh, che guarda le sue sorelle musulmane iraniane dal paradiso. Come giovani ragazzi, eravamo istruiti a continuare la sua eredità difendendo risolutamente la nostra terra dall’Occidente imperialista e altre minacce alla Repubblica islamica.
Oggi ci chiediamo: se Fahmideh fosse vivo, sarebbe un attivista del movimento dell’Onda verde? Sarebbe un operaio che lotta per i diritti dei lavoratori? Farebbe parte, come noi, dell’enorme fuga di cervelli del paese, che studia nelle università occidentali? O forse sarebbe semplicemente uno dei tanti adulti con istruzione superiore e disoccupati che guardano, silenziosi e delusi, mentre la Repubblica islamica distrugge le prospettive della nazione in nome del coraggio suo e degli altri veterani e martiri di guerra?
La nostra generazione conosce le tattiche utilizzate dalla Repubblica islamica durante la guerra Iran-Iraq e nei decenni seguenti. Il regime ha usato il conflitto e la minaccia nemica come scusa per mantenere il paese represso e stabilizzare il suo dominio. L’ayatollah Ruhollah Khomeiny, leader supremo della rivoluzione, dichiarò all’inizio del conflitto: «La guerra è una benedizione divina, un regalo donatoci da Dio. Il tuono del cannone ringiovanisce l’anima». Il regime ha padroneggiato l’arte della repressione durante gli anni ’80. Chiunque osasse esprimere dissenso era considerato nemico dell’Islam e del governo divino della Repubblica islamica, cosa portata avanti anche nel dopoguerra.
Nei due ultimi anni, timorosi di perdere la loro presa sul potere, i governanti iraniani hanno usato la mano pesante e aumentato il controllo sociale e politico. Ma anche se il movimento di opposizione popolare sembra zittito, non è morto. Una generazione di giovani attivisti sta continuando la lotta per le riforme. In tutto il paese studenti universitari hanno impedito a funzionari governativi di pronunciare discorsi nei campus o addirittura di entrare nelle loro scuole. Hanno scritto lettere aperte contro le politiche del regime e organizzato scioperi, e così hanno tenuto viva l’appello al cambiamento e alla libertà .
Un’azione militare contro l’Iran travolgerebbe il processo di transizione politica pacifica e di riforme nel paese. Anzi: date le turbolenze interne, temiamo che un attacco contro la Repubblica islamica sarebbe un evento auspicabile per il regime. Temiamo che la sola minaccia di un tale attacco aiuterebbe il regime a recuperare parte della sua perduta legittimità e mobilitare la popolazione in difesa della patria.
Il regime sta preparando il paese per un conflitto su larga scala. Il maggiore Mohammad Ali Jafari, comandante dei Guardiani della rivoluzione (i Pasdaran), di recente ha insistito sul fatto che le forze armate sono pronte per l’impegno militare. Un attacco risveglierebbe quasi certamente i sentimenti patriottici della popolazione, portandola a mettere da parte le considerazioni di politica interna in difesa della loro terra contro l’avversario esterno.
Perciò, come membri della generazione cresciuta durante una guerra sanguinosa, temiamo che un’azione militare da parte di Israele o degli Usa contro l’Iran sarebbe l’occasione d’oro che la leafership iraniana sta aspettando.
*Reza H. Akbari è ricercatore associato alla Century Foundation e dottorando alla Elliott School of International Affairs della George Washington University. Azadeh Pourzand è laureata della Harvard Kennedy School of Government e alla Nijenrode Business Universiteit, in Olanda.
* * traduzione di Cristina Cecchi
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