Vivere senza Standard&Poor’s ecco regole e prassi da cancellare
All’arbitro, come ogni tifoso di calcio sa, non si dice nulla, finchè non ti va contro. Quando questo succede, sono insulti, contumelie, contestazioni. E’ una metafora che piacerebbe alle agenzie di rating, perché le installerebbe, una volta per tutte, in un ruolo di giudice imparziale che, in realtà , sono venute occupando, in questi anni, più per l’accumularsi di decisioni scoordinate di mercati, istituzioni, politici, che per scelte mirate e deliberate. Invece, l’ultima pioggia di declassamenti, operata da Standard&Poor’s sui Paesi dell’eurozona, ha scatenato una nuova tempesta contro le iniziative delle agenzie di rating, di cui si mette in discussione non solo l’imparzialità , l’indipendenza, l’affidabilità , la capacità di giudizio, ma anche la stessa efficacia. In effetti, per il momento, la raffica di downgrading di S&P non ha avuto affatto l’impatto di uno tsunami sul debito pubblico europeo, che si attendeva: rendimenti e spread dei Paesi declassati hanno retto, senza troppi problemi, l’effetto-declassamento.
Le quattro sorelle
Le spiegazioni non mancano. I downgrading, compreso quello francese, erano largamente attesi e, dunque, i mercati li avevano già incorporati nei prezzi dei titoli. La Banca centrale europea è intervenuta massicciamente per puntellare i titoli minacciati. Infine, non basta S&P per condannare un titolo. Fino a quando non si muovono anche le altre due grandi sorelle (Moody’s e Fitch), un Paese declassato può sempre sbandierare un rating migliore, per convincere gli investitori a non precipitarsi a vendere i suoi titoli. E, in realtà , le sorelle sono quattro: fra le agenzie di rating ufficialmente riconosciute (ad esempio, dalla Bce) c’è anche una agenzia canadese, assai poco nota, la Dbrs, con il suo rating sui titoli pubblici.
I conflitti d’interesse
E’ un assaggio dell’intricato mondo del rating, dove le agenzie – private – possono avere conflitti d’interesse. Il caso più clamoroso è la vicenda dei subprime, in cui le agenzie elargivano rating tripla A, su mandato – e pagamento – degli stessi beneficiari del rating. Ma ci sono dubbi più sottili e velenosi. Ieri, in un’intervista al Sole 24 ore, il presidente della Consob, Giuseppe Vegas, ha sottolineato con forza che grossi operatori finanziari, che, presumibilmente investono sul debito pubblico europeo, in particolare con i Cds (le assicurazioni contro il default) detengono quote importanti delle agenzie di rating: Warren Buffett in Moody’s, Blackrock in S&P, Vanguard e Capital World in tutt’e tre le più importanti. Anche senza mettere in dubbio la correttezza dei rating, tuttavia, molti economisti imputano alle agenzie l’incapacità di cogliere la specificità del debito di Stato, rispetto a quello di un’azienda. Il modello, insomma, è sbagliato e questo, dicono economisti come Paul Krugman, spiega perché le agenzie di rating tendano a sbagliare molto spesso le loro previsioni di default di singoli Paesi.
Il potere delle agenzie
Un panorama così incerto e scivoloso che, lunedì, il presidente della Bce, Mario Draghi, è intervenuto per invitare tutti a «fare meno affidamento sulle agenzie di rating» e, anzi, «ad imparare a vivere senza di loro». Ma le agenzie di rating non si sono date da sole il potere di cui oggi dispongono: glielo hanno dato prassi, norme, regole, leggi e direttive, spesso emanate dagli stessi poteri pubblici che oggi le criticano. Concretamente, ancor più dell’impatto psicologico, un declassamento risulta devastante per gli effetti automatici, a cascata, che queste regole hanno messo in piedi: banche e fondi si affrettano a svendere in massa i titoli declassati, anche perché, per norma, non possono detenere titoli al di sotto di un certo rating. Hanno cominciato i fondi pensione americani a sbandierare, nella loro pubblicità , che investivano solo in titoli a tripla A.
Leggi e decreti
Ma il principio è stato codificato in leggi e decreti. Fra il 2006 e il 2011 una serie di direttive europee hanno imposto ai fondi comuni, agli hedge funds e alle banche di tener conto dei rating dei titoli, nel costituire le loro riserve. In Italia, questo vale anche per i titoli che hanno un collaterale a garanzia. Dove non arrivano le direttive comunitarie arrivano la pioggia di raccomandazioni e orientamenti emanati dalle autorità di vigilanza: l’Eba (banche), l’Esma (la Consob europea), l’Eiopa (assicurazioni e fondi pensione). Anche la Bce di Draghi utilizza largamente le decisioni delle agenzie di rating. Nel manuale “L’attuazione della politica monetaria nell’area euro” si specifica che la «qualità di credito» dei titoli che vengono portati allo sportello della Bce, a garanzia dei prestiti che fornirà la Banca centrale viene accertata secondo una griglia di parametri, che sono i rating delle quattro agenzie ufficiali. La classificazione è cruciale perché, su questa base, viene valutata l’entità della garanzia proposta. La Bce, infatti, non accetta i titoli al valore nominale. Nel caso di un titolo di Stato decennale a rating, almeno, A, applica un taglio del 5,5 per cento sul valore nominale. Per un titolo di serie B (come oggi l’Italia) il taglio è di cinque punti superiore, cioè del 10,5 per cento. Nel caso di obbligazioni bancarie, si va dal 17 al 40 per cento.
Le riforme possibili
Si può fare, allora, a meno di strumenti, come i rating, che hanno ormai così profondamente pervaso il sistema finanziario? L’idea che circola a livello europeo non è, per ora, così drastica. Si punta, piuttosto, a togliere – come è già stato fatto, in parte, per le banche – alle agenzie come S&P il ruolo di unico titolare del giudizio su un titolo, allargando i margini di discrezionalità ed evitando l’applicazione meccanica dei soli rating delle agenzie. L’obiettivo è evitare che un declassamento, giustificato o meno, comporti automaticamente e obbligatoriamente un’onda di piena che svuoti dei titoli declassati le casse di banche e fondi.
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