Vince Gingrich e spacca i repubblicani “Hanno paura, mi riprenderò Washington”

by Editore | 23 Gennaio 2012 8:42

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COLUMBIA (South Carolina) – Il profondo Sud dà  una sterzata a destra alla corsa per la nomination repubblicana. Incoronando Newt Gingrich nella primaria della South Carolina gli elettori hanno riaperto i giochi, ma ora rischia il caos la corsa tra repubblicani per la Casa Bianca. 
Col 40% di voti in South Carolina, dopo avere umiliato l’ex favorito Mitt Romney (28%), Gingrich promette: «Non farò una campagna repubblicana, farò una campagna americana». E’ un’allusione subliminale ai temi cripto-razzisti che eccitano le folle del Sud e quelli del Tea Party: Obama lo straniero, l’anti-patriota, il nero usurpatore che va cacciato per «riprenderci l’America». Gingrich è l’uomo delle definizioni-bomba, come «i palestinesi sono un popolo inventato», un’estremista che alla Casa Bianca farebbe tremare il mondo. Il guitto rancoroso che calca la scena politica dai tempi di Ronald Reagan, che fu a capo dell’establishment repubblicano come presidente della Camera ai tempi di Bill Clinton, che fu cacciato dai suoi colleghi parlamentari dopo un ammutinamento contro la sua leadership disastrosa, che fu multato di 300.000 dollari per violazioni del codice etico, oggi è l’artefice della propria resurrezione come capopopolo anti-establishment. «Hanno paura di me – dice dei notabili del suo partito – perché io cambierò Washington». 
La sua vittoria prolungherà  la gara delle primarie che Romney sperava di blindare presto. Non era mai accaduto: tre candidati diversi si sono divisi le prime tre primarie, Rick Santorum ha vinto l’Iowa (dopo ri-calcolo dei voti), Romney il New Hampshire e ora Gingrich si è aggiudicato la terza tappa. Per ora hanno un pugno di delegati: 23 quelli conquistati sabato da Gingrich, 19 Romney. La corsa è lunga per il traguardo dei 1.144 delegati necessari. Una gara protratta per molti mesi non è un male in sé, a meno che diventi un gioco al massacro. Gingrich spaventa l’establishment repubblicano proprio perché non arretrata davanti a nulla: «Muoia Sansone con tutti i filistei». Ha demolito Romney usando argomenti cari alla sinistra: lo ha definito un “capitalista-avvoltoio” per le operazioni spregiudicate che fece al vertice di Bain Capital (ristrutturazioni con licenziamenti di massa). Un’eresia per i repubblicani che considerano auto-distruttive queste polemiche contro il capitalismo finanziario di c’è bisogno per i fondi elettorali. 
Gingrich è tutt’altro che immacolato: ha incassato 1,5 milioni di parcelle da Freddie Mac, colosso del credito implicato nello scandalo dei mutui subprime. Su queste contraddizioni Romney riparte al contrattacco. L’ex governatore del Massachusetts, forte del più cospicuo tesoro di guerra da spendere in pubblicità  televisiva, compra spazi su tutte le emittenti della Florida dove si vota il 31. I suoi attacchi a Gingrich lo dipingono come «un insider che lavora a Washington da 40 anni, da politicante o da lobbista»; mette in dubbio la sua «sobrietà  ed equilibrio mentale». Botte da orbi, promettono una campagna feroce. Gingrich è un bersaglio facile: è talmente megalomane da paragonarsi a Winston Curchill e De Gaulle («manca solo Napoleone», dicono nello staff di Romney), si vanta di «aver riformato il Welfare State» (in realtà  fu un’operazione bipartisan con Clinton), e di «avere creato milioni di posti di lavoro ai tempi di Reagan» (la risposta di Romney: «Questa fa il paio con Al Gore che sosteneva di avere inventato Internet»). Gingrich ha bagagli ingombranti, i suoi armadi traboccano di scheletri. Tuttavia la base repubblicana di oggi è affetta da amnesie collettive, s’innamora di questo tribuno riconvertito al populismo del Tea Party. Gli evangelici gli perdonano due divorzi e una lunga relazione extra-coniugale. L’attrazione verso Gingrich è sbocciata, irrazionale e tumultuosa, grazie alla sua velenosa aggressività  nei dibattiti tv, le stoccate contro «l’establishment dei media, tutto di sinistra, che lavora per rieleggere Obama». 
Lui che si vanta di essere «un grande storico», ora solletica l’umore anti-élitario. Sfida le leggi della gravità : è partito con pochi soldi rispetto a Romney; per dar retta alla terza moglie ha sfasciato la modesta organizzazione elettorale che aveva; ha costruito il proprio miracolo unicamente sulle brillanti performance nei dibattiti tv, la battuta da k.o. al momento giusto. Romney gli ha dato aiuto con degli autogol inspiegabili: per un multimilionario che si prepara a questa campagna da quattro anni, sono sconcertanti i balbettamenti con cui ha risposto per settimane alle domande sulla sua dichiarazione dei redditi. Finalmente la pubblicherà  domani, e vedremo se sopirà  le critiche: sulla modesta aliquota del 15%, sui 30 milioni nel paradiso fiscale delle isole Caimane. Nei peggiori incubi della destra c’è una convention di fine agosto senza un candidato a maggioranza assoluta: rara ma non unica nella storia. Tutto sarebbe possibile, compreso un candidato “catapultato” dall’alto, cioè dall’establishment, con la benedizione della Fox di Rupert Murdoch e delle famiglie miliardarie come i Koch che tirano le fila del Tea Party.

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