CESARE PAVESE AMORE E INFELICITà€
Tra l’ottobre e il dicembre del 1945 Cesare Pavese tornò a scrivere poesie. Si era innamorato di una ragazza siciliana che lavorava nella sede romana della Einaudi e si chiamava Bianca Garufi. Il piccolo canzoniere aveva per titolo La terra, la morte e Pavese lo pubblicò su una rivista diretta da Antonio Barolini, le Tre Venezie. Einaudi lo ripubblicò, insieme ad altre poesie, nel primo libro postumo, uscito pochi mesi dopo il suicidio (27 agosto 1950) con il titolo, scelto dall’editore e poi divenuto emblematico, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Un piccolo libro curato da Calvino e Mila che non piacque a Geno Pampaloni. Ne parlò sul Ponte. Il titolo, scriveva, è «il più profanatorio possibile, che ad un pubblico grosso può sembrare persino plateale, adatto a richiamare attorno alla memoria di Pavese proprio quelle pruriginose mosche cocchiere dello scandalo e del pettegolezzo». Ma a Bianca, che del libro era in qualche modo la protagonista, fece invece tornare in mente Pavese che scriveva “per amore e per dolore di me”.
«Ricordo: scrisse la prima sulla poltrona della mia camera da letto; io ero sul letto e dormivo. Poi mi svegliai e lui lesse: “Terra rossa ,terra nera – tu vieni dal mare – dal verde riarso dove sono parole antiche e fatica sanguigna… tu ricca come un ricordo, certa come la terra, buia come la terra, frantoio di stagioni e di sogni”. Mi piacque tanto e forse lo amai poeta per quel giorno. Io ero allora, davvero, buia come la terra. Povero Pavese, morto per Tina, per Fernanda, per Bianca, per Costanza. Quale di queste donne poteva salvarlo?». Il brano, del 13 aprile 1951, è tratto dal Diario di Bianca Garufi e lo pubblica Mariarosa Masoero nel volume intitolato Una bellissima coppia discorde che è poi il carteggio 1945-1950 tra Pavese e la Garufi, dalla Masoero curato e annotato in modo eccellente (Leo S. Olschki, pagg. 162, euro 20). Le lettere di Pavese erano già state pubblicate (ma una importante e delicata senza il nome della destinataria) mentre le lettere della Garufi sono inedite e danno trama alla storia minuta di un amore difficile che si innesta in un rapporto tra due intellettuali intenti a scrivere libri, poesie, diari e a tradurre.
Bianca che poi diventerà una psicoanalista junghiana, allieva di Ernst Bernhard, ha già avuto una storia importante con Fabrizio Onofri e un marito, Pietro Mondello, dal quale si separerà nel ’47. Onofri era un intellettuale, autore anche di romanzi, dirigente del Pci allora tra le figure di maggior spicco. Bianca confesserà più in là d’essere attratta dagli uomini che contano e Pavese è tra questi. Il carteggio è intenso: i due si attraggono e si respingono. Pavese impone: seducimi! Intanto sbrigano anche una corrispondenza amoroso-letteraria. Scriveranno infatti a quattro mani un romanzo uscito postumo nel ’59 con il titolo Fuoco grande. Una storia d’amore, ambientata nel Sud e inevitabilmente tormentata tra Giovanni e Silvia. E Pavese scriverà per lei la sua opera più dannunziana, quei Dialoghi con Leucò che vogliono andare alle radici di tutto attraverso il recupero del mito. Dalle lettere si viene a sapere che Pavese fece leggere a Bianca passi del suo segretissimo diario, Il mestiere di vivere, poi trovato tra le carte dello scrittore e pubblicato nel ’52. Non pochi passi sono dedicati alla donna, al problema di avere una donna. Il primo gennaio del ’46, Pavese scrive: «Anche questa è finita. Le colline, Torino, Roma. Bruciato quattro donne, stampato un libro, scritte poesie belle, scoperta una nuova forma che sintetizza molti filoni (il dialogo di Circe). Sei felice? Sì, sei felice. Hai la forza, hai il genio, hai da fare. Sei solo. Hai due volte sfiorato il suicidio quest’anno. Tutti ti ammirano, ti complimentano, ti ballano intorno. Ebbene? Non hai mai combattuto, ricordalo. Non combatterai mai. Conti qualcosa per qualcuno?».
Dopo l’intenso periodo romano, Bianca si licenzia da Einaudi. Scriverà a Pavese da Uscio, in Liguria, dove c’era quello che oggi chiameremmo un centro benessere e poi la ritroviamo a Milano. Bianca dovrebbe tradurre La nausea di Sartre per Einaudi, ma il lavoro va a rilento e alla fine le subentrerà Bruno Fonzi. Nelle lettere è possibile seguire la vicenda minuta di quel lavoro, richiesto e accettato per bisogno di soldi. Più volte Pavese la rimprovera perché non riesce a lavorare in modo coerente e continuativo. Bianca risponde mimando lo stile telegrafico: «Caro Pavese, ricevuto tua. Sei sempre lo stesso, ma amoti egualmente. Vecchia carogna…» . E Pavese di rimando, vedendo che la traduzione di Sartre non arriva. «Cara Bianca, sei veramente disgustosa. Dopo che hai promesso la Nausée per febbraio, mandi su Fonzi fresco fresco a dirci che in sostanza l’ha dovuta rifare…». Il 2 novembre del ’47, Bianca scrive a Pavese perché ha appena ricevuto una copia dei Dialoghi con Leucò.
«Caro Pavese, ho ricevuto i Dialoghetti… Li ho letti con molta commozione. Naturalmente i primi sono i più intensi… Sei l’unica persona da cui vorrei che scrivesse ancora qualcosa. Per il resto con quei nidi di ragno ecc. io veramente non ho più niente da fare. Non ce la faccio nemmeno a leggere tre pagine di seguito». L’allusione assai esplicita è al romanzo d’esordio di Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, uscito anch’esso nel ’47. Nel dialogo intitolato “La belva” dove Endimione narra ad un passante (lo straniero) il suo approccio con Artemide si parla di una magra ragazza che vive in solitudine. «Endimione, rasségnati nel tuo cuore mortale. Né dio né uomo l’ha toccata. La sua voce ch’è rauca e materna è tutto quanto la selvaggia ti può dare». Sappiamo che la donna con la voce rauca era Tina Pizzardo, ma anche Bianca. Pavese cercava l’una nell’altra, cercava sempre la stessa donna sperando che lo salvasse da se stesso.
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Scrivo poesie solo per portarmi a letto le ragazze (Feltrinelli, pp.308, euro 17) è una raccolta postuma di racconti inediti a firma di Charles Bukowski. Lo scrivere sboccato, a volte eccessivamente volgare, per descrivere lo smisurato erotismo di cui si circondava, ricco di particolari magari che non sempre hanno incontro il consenso del pubblico o della critica, è la nota caratterista predominante di Bukowski che si identifica nel protagonista dei suoi tanti raconti, Henri Chinaski, suo alter ego, poeta «sui generis» che ha poco a che fare con l’ideale comune dello scrittore di versi.