Viaggio nella Londra razzista dove i neri non trovano giustizia

by Sergio Segio | 9 Gennaio 2012 7:59

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Eltham, Sud di Londra. È qui che diciotto anni fa hanno ammazzato Stephen Lawrence, dove adesso c’è una distesa di fiori freschi che, da quando hanno condannato due dei suoi assassini tre giorni fa, la gente del quartiere continua a portare senza sosta. Una banda di cinque minorenni bianchi incontrò il ragazzo alla fermata dell’autobus e gli aprì il polmone destro con un coltello. Senza motivo. «Fottiti, sporco negro». Stephen aveva 19 anni e studiava architettura. Quelle furono le ultime parole che gli rimbalzarono in testa. Fece di corsa Well Hall Road, poi si accasciò come un pupazzo. Senza sangue, senza vita. Adesso, in questo pomeriggio con il cielo che sembra un tappeto sporco, la sua mamma, Doreen, è piegata sulla lapide nera che ricorda l’ultimo istante di vita di suo figlio. «In memoria di Stephen Lawrence, 13 settembre 1974-22 novembre 1993».
Attorno a lei un gruppo di persone le fa da cordone per permetterle di pregare. Gente di questo sobborgo diventato il simbolo dell’Inghilterra sbagliata. Una donna con un cappello azzurro, i capelli molto chiari, si avvicina a Doreen e l’abbraccia. Le dice: «Qui a Eltham siamo in tanti a essere fieri della sua battaglia». Lei abbozza quel che resta di un sorriso che un tempo deve avere avuto. «Aspetto ancora le altre condanne. Magari il Paese è cambiato. Ecco, forse la morte di Stephen è servita a fare aprire gli occhi alla gente». Altre mani, altri abbracci. Quasi tutte donne. Dall’altra parte della strada un van della polizia controlla la scena.
È una ruota che gira con una lentezza esasperante, quella che dovrebbe portare verso l’uguaglianza, ma da quel 22 novembre 1993 in effetti qualcosa è cambiato. Anche se nella Gran Bretagna del terzo millennio, in cui le minoranze etniche rappresentano il 9% della popolazione contro il 5% di allora, il colore della pelle continua a fare la differenza. «Il multiculturalismo è fallito», spiegò pochi mesi fa David Cameron. Aveva torto? Secondo i dati del Rapprto nazionale sul Sistema Giudiziario e le Statistiche sulla Razza, un ragazzo nero guadagna, a parità  di lavoro, il 20% in meno di un collega bianco e ha il quadruplo di possibilità  di morire ammazzato e il quintuplo di essere fermato dalla polizia. Identiche le percentuali all’interno dei tribunali dove, all’alta Corte di Giustizia, i giudici neri sono solo due, 1,6% del totale. Comunque due di più rispetto al 1993.
Anche la lunghezza delle pene varia a seconda dei colori. Un nero accusato di violenza sessuale sconta mediamente cinque anni di prigione. Un bianco quattro. L’attivista per i diritti umani Gubrux Singh sostiene che «è vero che la ruota gira, ma la recessione potrebbe riportarla indietro. Le rivolte di agosto a Tottenham lo dimostrano. Le differenze di razza saranno sostituite da quelle di classe. E di casta». Anche la politica fa passi avanti. Nel 1993 le minoranze etniche in Parlamento rappresentavano l’1% degli eletti (6 contro 645), oggi sono il 4% (28 contro 622). La prima donna di colore a essere eletta a Westminster fu la parlamentare laburista, tuttora in carica, Diane Abbott, che giusto 48 ore fa è stata costretta a scusarsi con il Paese per un tweet imbarazzante. Diceva: «I bianchi dividono e governano, non adeguiamoci al loro gioco». I bianchi. Ed Miliband, il leader del suo partito, le ha chiesto di ritrattare. Lei si è adeguata, ma è ovvio che il problema rimane. Ed è trasversale, come dimostra anche la Premier League, dove solo due allenatori sono neri e dove venerdì scorso Tom Adeyemi, terzino dell’Oldham, ha lasciato il campo del Liverpool in lacrime dopo essere stato inondato dagli insulti razzisti del pubblico.
Prima di abbandonare Well Hall Road, Doreen Lawrence si ferma con Elaine Cob e Gordon Newton. Sono due negozianti del Kent. Vendono lapidi. E sono loro che si prendono cura di quella che ricorda Stephen. Pochi giorni dopo che era stata fissata sul marciapiede qualcuno passò con un martello e la distrusse. Elaine e Gordon videro la scena in tv e telefonarono a Doreen: «D’ora in poi almeno questo non sarà  più un tuo problema. Ci pensiamo noi». La lapide è stata bruciata, verniciata, graffiata. Loro sono sempre intervenuti. Finché la polizia ha deciso di montare delle telecamere per sorvegliarla 24 ore su 24. Il simbolo fisico di una sconfitta.

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