Via dall’Urss, ma senza direzione

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Non ci crederete, ma Ladispoli è una cittadina famosa in Russia. E anche in Israele, negli Stati Uniti e in Canada: ovunque ci sia stata una forte immigrazione ebraica. «Ladispoli è stata il teatro delle vacanze romane degli ebrei russi che stazionarono in Italia in attesa del visto per il Nordamerica alla fine degli anni Settanta», sorride David Bezmozgis, che ci ha passato quattro mesi con la famiglia arrivando da Riga, quando aveva sei anni. «Di Roma ricordo tutto sommato poco, ma la spiaggia di Ladispoli mi è rimasta in mente. I romani la usavano tre mesi l’anno, per noi russi invece era una seconda casa».
Ricapitolando: è l’estate del 1978, Brežnev è ben saldo al Cremlino, Egitto e Israele stanno arrivando alla pace, e a 40 mila ebrei russi viene concesso di lasciare l’Urss ed emigrare via Roma «in un’operazione nata dal desiderio dei sovietici di apparire più liberali in vista delle Olimpiadi di Mosca», ricorda Bezmozgis, uno dei «venti migliori scrittori americani sotto i 40 anni» secondo il New Yorker, e autore del romanzo Il mondo libero che esce in questi giorni da Guanda, a sei anni dal successo del suo prequel, il libro di racconti Natasha.
Quei 40 mila rifugiati destinati a sopravvivere vendendo spartiti musicali e matrioske al mercato di Porta Portese sono solo l’inizio: ne arriveranno 50 mila l’anno dopo (molti di più di tutti gli ebrei italiani sparsi sulla penisola), prima che nel 1979 l’invasione dell’Afghanistan metta fine alle pretese cosmetiche dell’Urss. 
Stiamo parlando di gente sbalestrata come la famiglia Krasnansky, protagonista di questo ironico romanzo privo di eroi idealisti o generosi o anche solo ammirevoli. L’unico veramente interessante dei Krasnansky è Samuil, il patriarca, un’ex guardia rossa che ha assistito all’assassino del proprio padre da parte dei russi bianchi (i controrivoluzionari) e ha scalato i ranghi del partito prima di esser denunciato come ebreo dal proprio autista. 
Gli altri sono mezze tacche come il figlio Karl, capitalista nato, con moglie e bambini al seguito; o l’altro figlio Alec, che è un idiota capace solo di correr dietro alle sottane, malgrado sia da poco sposato alla dolce e malinconica Polina, che avendo lasciato una famiglia molto unita in Urss è forse quella che più ha da perdere ad andarsene.
Per loro, come per gli altri 40 mila ebrei in transito, la Roma del 1978 è un purgatorio. E questo essere in sospeso tra un inferno certo e un dubbio paradiso rende Il mondo libero un romanzo sull’attesa — l’attesa di una sistemazione, l’attesa di asilo politico, l’attesa di un visto e di una nuova vita — e allo stesso tempo un libro insolito che racconta una Roma insolita: dura, sporca, sgarbata e inospitale, rovesciando il mito della città  aurea che tutti gli stranieri vorrebbero fare propria. «Se questo la stupisce». dice il giovane Bezmozgis, seduto alla scrivania del suo americanissimo ufficio di borsista a Harvard, «si ricordi che di solito gli stranieri che s’innamorano di Roma sono turisti che hanno soldi da spendere. Arrivarci da rifugiati è tutt’altra cosa».
E poi, non dimentichiamoci nemmeno che Il mondo libero è ambientato negli anni di piombo, un rompicapo per chi arriva dall’Urss: «Di fronte alla contrapposizione fascisti-comunisti e agli atti di terrorismo di quegli anni, una comunità  di ebrei sovietici per cui fascismo e comunismo erano parole con un significato preciso, si preoccupava di come sarebbe stata accolta. Stiamo parlando di persone che avevano scelto di lasciare un Paese comunista, ma che conservavano una mentalità  comunista».
Dunque Roma e la situazione politica italiana erano fonte di confusione e ansia. «Innanzitutto, nessuno dei russi che aspettavano a Roma sapeva con esattezza quale sarebbe stata la sua destinazione finale (la famiglia di Bezmozgis, alla quale il romanzo è ispirato, ebbe quindici minuti per scegliere tra gli Stati Uniti e il Canada, come succede ai Krasnansky, ndr). E poi, a quell’epoca, chi emergeva dalla cortina di ferro non sapeva quasi niente del resto del mondo. I miei scelsero il Canada unicamente sulla base di quello che avevano visto in televisione durante le riprese delle Olimpiadi di Montreal nel 1976».
E perché non Israele? Bezmozgis lo spiega in parte nel libro quando scrive che «Alec, avendo evitato con successo il peggio del servizio militare sovietico, non moriva dalla voglia di andare a piantar tende nel deserto. Farsi ammazzare o mutilare in Libano o in Egitto o dovunque volassero proiettili, sembrava contraddire le ragioni per cui uno lasciava l’Unione Sovietica».
«Israele era l’ultima spiaggia», dice oggi lo scrittore. «Chi ci andava perdeva lo status di rifugiato e da quel momento non poteva più tornare indietro. Il rischio era troppo alto, bisognava crederci veramente». E lascia intendere che molti di loro, in fondo, non ci credevano abbastanza.


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