Usa-Ue, incubo shock petrolifero l’altra faccia dello scontro con l’Iran

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NEW YORK – L’America mette in guardia l’Iran contro nuove provocazioni nello Stretto di Hormuz, dove transita un quinto di tutte le esportazioni mondiali di petrolio. Teheran a sua volta ammonisce l’Arabia Saudita, perché eviti di supplire con il suo greggio alla “penuria da sanzioni”. Improvvisamente lo spettro di un nuovo shock petrolifero si affaccia come una delle incognite maggiori, per la sicurezza e per l’economia mondiale, nel 2012.
«È uno dei quattro cavalieri dell’Apocalisse», dichiara l’esperto petrolifero Edward Yardeni al Washington Post, mettendolo in testa alla classifica delle minacce per la ripresa. Un intreccio perverso si può creare fra l’escalation di tensione Iran-Usa – da una parte le nuove sanzioni americane che stanno dimostrandosi più efficaci del solito, dall’altra la prosecuzione del programma nucleare iraniano e il giallo dell’assassinio di uno scienziato – che si sovrappone alla crisi debitoria dell’eurozona.
Non sfugge infatti agli esperti che tre fra le economie europee più fragili, e cioè Italia, Spagna e Grecia, sono anche le più dipendenti dal petrolio iraniano e quindi le più colpite dalle sanzioni recenti. Gli effetti sui prezzi sono amplificati dalla debolezza sull’euro: come osserva uno studio di Barclays Capital, «se misurato in euro il greggio è risalito ai massimi storici del luglio 2008». Poiché i prezzi del petrolio sono in dollari, il rincaro della materia prima all’origine viene accentuato quando arriva in euro alla pompa di benzina o nella bolletta del riscaldamento. 
Il colpo lo sentono comunque anche gli Stati Uniti, perché la tensione con l’Iran viene al termine di una lunga escalation nei prezzi energetici: la media delle quotazioni del 2011 aveva superato del 14 per cento la media del 2008, pur considerato un anno da record. La bolletta energetica americana è rincarata già  di 125 miliardi di dollari nel 2011, prima ancora dell’ultimo precipitare della crisi con l’Iran. 
Lo specialista energetico della Deutsche Bank, Adam Sieminski, prevede che «un greggio a 125 dollari il barile sottrae un punto percentuale alla crescita mondiale, a 150 dollari vanno in fumo due punti e mezzo del Pil mondiale nel 2012, un vero disastro. Le altre preoccupazioni, sulla tenuta della ripresa in America, in Cina, in Europa, passano in secondo piano rispetto ai rischi geopolitici sul petrolio». Non è tutto e soltanto legato all’Iran, perché anche le violenze in Nigeria stanno contribuendo a ridurre le forniture (il Paese africano produce 2 milioni di barili al giorno). 
Tuttavia il principale epicentro della tensione è lo Stretto di Hormuz, teatro in questi giorni di contatti ravvicinati e sempre più ostili tra la US Navy e la flotta iraniana. Da quello Stretto passano 17 milioni di barili al giorno. Teheran ha minacciato la chiusura di quel braccio di mare, come ritorsione dopo l’ultimo giro di sanzioni: in particolare quelle che Washington ha varato contro la banca centrale iraniana, un gesto che sta rivelandosi efficace. Le conseguenze si fanno sentire anche in Paesi terzi: l’India che è il secondo maggiore cliente dell’Iran sta tagliando le sue importazioni per non incorrere nelle sanzioni americane; lo stesso stanno facendo Giappone e Turchia. La Cina resta l’importatore numero uno, ma difficilmente aumenterà  i suoi acquisti, per non diventare troppo dipendente da un singolo fornitore. 
La posizione dell’Unione europea viene seguita con estrema attenzione: nel summit del 23 gennaio dovrebbero essere annunciate decisioni sull’embargo. Secondo le ultime anticipazioni, però, gli effetti di una decisione europea non si sentiranno prima di sei mesi. Questo darebbe tempo agli Emirati arabi di mettere in funzione un nuovo oleodotto; e alla Libia di ripristinare le proprie esportazioni. In tal modo al termine dei sei mesi gli europei potrebbero forse trovare altrove dei sostituti ai 600mila barili di greggio iraniano che oggi importano quotidianamente. Per quanto riguarda la posizione dell’Italia, il Washington Post osserva che «l’Eni ha una deroga per continuare a ricevere 10mila barili al giorno, come pagamento di lavori fatti in passato dal gruppo italiano in due giacimenti iraniani, pagamento che ai ritmi attuali non sarà  finito prima del 2014». 
Nel frattempo gli iraniani non stanno a guardare. Tra le soluzioni che cercano per aggirare l’embargo, una consisterebbe nel “mescolare” il loro greggio con quello del Venezuela per mascherarne la provenienza, ovviamente con l’accordo di Hugo Chavez. La tensione Usa-Iran è aggravata da fattori imprevedibili, come un possibile attacco di Israele contro gli impianti nucleari di Teheran, che a loro volta s’intrecciano con la campagna elettorale americana: la destra repubblicana accusa Barack Obama di arrendevolezza nei confronti della Repubblica islamica (Mitt Romney), promette che in caso di vittoria appoggerà  incondizionatamente Israele (Newt Gingrich), e invoca la necessità  di bombardamenti preventivi contro l’atomica degli ayatollah (Rick Santorum).


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