Uno Stato troppo controllore soffoca i principi liberali
Nessuno è tenuto a dire perché compra un certo bene, o come usa i soldi che guadagna, e nessuno lo chiede. In una «società aperta», le transazioni intersoggettive — ciò che chiamiamo «negozio» — non sono vincolate ad alcuna giustificazione metagiuridica e/o morale. Non per ragioni moralistiche, ma per la soggettività del concetto di valore — lo scambio è generato da una molteplicità di scopi non prevedibili e non programmabili — che si concreta nella libertà delle scelte individuali e si sostanzia nella limitazione del potere di intervento pubblico.
È, invece, la presunzione di sapere ciò che è rilevante per i singoli individui che giustifica l’imposizione dall’alto di un equilibrio economico generale da parte del pianificatore. Da noi, è la strada sulla quale si sono avviati gli ultimi governi Berlusconi-Tremonti e Monti pretendendo di sapere che cosa fa il cittadino dei propri soldi. Ma per saperlo: 1) hanno tolto, di fatto, dalla circolazione la carta-moneta, che pure lo Stato continua a stampare; 2) hanno equiparato i risparmiatori a criminali; 3) hanno violato un principio di civiltà che ha le sue radici nella tradizione dello Stato moderno; 4) attraverso il controllo dell’uso del denaro, hanno imposto agli individui una gerarchia di fini. Prima di diventare un Paese di socialismo reale, l’Italia annega nel ridicolo. Una signora che, per ritirare poche migliaia di euro dal conto corrente, ha dovuto compilare un modulo, nel quale dire che cosa ne avrebbe fatto, ha scritto: «Servono per le puttane di mio marito e, a me, per mantenere il mio amante». Una pernacchia alla stupidità di Stato.
Mi rendo conto che — difendendo le libertà e i diritti individuali, violati dai governanti e ignorati dai più — rischio di essere io stesso, ancorché per ragioni opposte, fuori dal tempo. Il Paese è in preda alla sindrome del «governo dei migliori» e del «cittadino onesto che paga le tasse» fra una folla di disonesti — per definizione, i ricchi — cui farle pagare due volte e/o tenere in galera finché non confessano ciò che certi pubblici ministeri vogliono sentirsi dire. Ma qualcuno che, nel silenzio complice di gran parte dei media, ricordi che cosa sono la democrazia liberale, lo Stato di diritto e il mercato, e si chieda cosa sta succedendo, ci vuole. Così, pur prevedendo l’indignazione dei benpensanti — che frastornati dal gran polverone, donano entusiasti l’oro alla Patria e rinnegano le libertà di cui ancora godono e che stanno perdendo — e dei miei colleghi «laici, democratici, antifascisti», azzardo due risposte, solo in apparenza contraddittorie.
Prima: perché — a 66 anni dalla caduta del fascismo — molti italiani sono ancora, culturalmente, in camicia nera e vedono nel potere politico un Duce in nome del quale «credere, obbedire, combattere».
Confondono il senso civico — i doveri che, peraltro, non osservano — con la rinuncia alle libertà e ai diritti, che non conoscono. Che piaccia o no, qui siamo ancora sul terreno di un malinteso patriottismo. Un lettore mi ha chiesto se le libertà del liberalismo consistano nel rapinare le banche. Un idiota? No, il figlio della cultura dominante.
Seconda: perché, pur sapendo bene come stanno andando le cose, certi giornalisti non fanno i cani da guardia del potere politico, ma ne sono il cane da grembo. E qui piombiamo nell’utilitarismo — non quello teorizzato dai liberali Jeremy Bentham e John Stuart Mill — come soggettiva motivazione delle scelte individuali di libertà , ma come opportunismo professionale. Costoro sono convinti che, nell’Italia delle corporazioni, del familismo amorale, delle raccomandazioni, ci siano più probabilità di far carriera adeguandosi al vento che tira, invece di pensare con la propria testa, sempre che ne abbiano una, e dire ciò che pensano, sempre che siano capaci di pensare.
Ma mi viene il dubbio che le risposte non siano due ma — come insegna la storia che, nel ’22, di fronte all’emergenza di allora spalancò le porte all’«Uomo della Provvidenza» — ce ne sia una sola. La prima; che le compendia entrambe.
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