Una tazza di tè con gli ultimi

by Editore | 22 Gennaio 2012 10:15

Loading

LONDRA «Io mi dicevo: sopravviverò. Sopravviverò! E sono sopravvissuto. Ma tanti accanto a me si lasciavano vincere dalla fame, dal freddo, dal dolore, e dicevano: moriremo. E sono morti». Isaac mi stringe il braccio, mentre ricorda, poi d’improvviso gli vengono gli occhi lucidi. «Scusi», dice, asciugandosi le lacrime con il dorso della mano. «Anche i miei genitori sono morti nei campi. Ho dato a mio figlio il nome di mio padre, a mia figlia quello di mia madre. È importante per noi. È importante ricordare». Stringe più forte il mio braccio, e continua a piangere.
S’avvicina il Giorno della Memoria, la giornata della rimembranza dell’Olocausto, quando Israele e gli ebrei di tutto il mondo e tutto il mondo civile commemorano la pagina più nera del Novecento, forse la più atroce nella storia umana. Ci sono tanti modi per evocarla. Uno è venire in quello che sembra un normale centro per anziani, in un quartiere della Londra nord, dove tanti nonnini e nonnine si ritrovano a seguire lezioni di cucina e danza, a giocare a carte e cantare, a guardare vecchi film e conversare, a pranzare e a prendere il tè. Scherzano, ridono, hanno l’aria di divertirsi. Ma non è un centro per anziani come gli altri, perché ognuno dei suoi trecento soci ha un segreto in comune: è un sopravvissuto ai campi di sterminio, al progetto nazista di cancellare un intero popolo dalla faccia della Terra. Si muovono con delicatezza, come preoccupati di andare in pezzi, qualcuno con le stampelle, hanno volti pieni di rughe, schiene curvate dagli anni (quasi cento per il più longevo, quasi settanta per la più giovane), ma occhi che brillano. Sono quelli che lo storico israeliano Tom Segev, con un’espressione poetica e agghiacciante, definì «il settimo milione»: gli ultimi rimasti nell’Europa del 1945, i superstiti al genocidio ebraico. Sediamoci a tavola con loro, per qualche ora. Ascoltiamo le loro storie. Prendiamo un tè con la Shoah.
L’Holocaust Survivors Centre di Hendon, una manciata di chilometri da Buckingham Palace, è l’unico centro di questo genere esistente al di fuori dello Stato ebraico. Funziona con i finanziamenti di Jewish Care, la maggiore organizzazione di beneficenza ebraica nel Regno Unito. Aprì una ventina d’anni or sono, per rispondere alle esigenze del gran numero di sopravvissuti dei lager hitleriani che vivono da queste parti. È diventato un modello per reintegrare anche altri rifugiati, altre vittime: compreso un gruppo di musulmani bosniaci, accolti di recente. È in un’anonima palazzina di mattoni: nulla, non un cartello, non un campanello, indica da fuori di cosa si tratta. Riservatezza, precauzione, bisogno di sicurezza, un po’ di tutto questo: comprensibilmente, la mia guida chiede che io presenti passaporto e tessera stampa, prima di entrare. Un po’, mi sembra di essere tornato a vivere in Israele, di sentire lo stesso senso di minaccia incombente, di accerchiamento. «L’Olocausto lascia un segno indelebile, anche quando uno non ci pensa più», spiega Judith Hassan, fondatrice del Centro. «Un trasloco, qualsiasi cambiamento, può risvegliare incubi che uno credeva di avere sepolto». Il Survivors Centre offre assistenza, terapia, il supporto di una seconda famiglia, oltre a quella che molti di loro hanno, talvolta anche folta. Ma figli e nipoti non vengono dalla Shoah. Gli arzilli vecchietti con cui prendo il tè, sì. Tra loro, si capiscono al volo. Un segreto li unisce.
«All’inizio nessuno voleva sentire parlare della nostra esperienza», dice Bella, ebrea polacca. «Quando raccontavo che ero stata nei campi, la gente si ritraeva, come spaventata. Ma forse non era paura, era vergogna: vedere noi sopravvissuti significava confrontare l’idea che l’uomo ha potuto fare questo a un altro uomo, ammettere di che cosa è stata capace la nostra specie. E dunque provare vergogna per se stessi. Perciò preferivano non ascoltarci, girare la testa dall’altra parte. E anche noi ci vergognavamo quasi di essere vivi, come di avere partecipato a qualcosa di mostruoso, sia pure nella parte delle vittime». 
A volte erano loro stessi a non volerne parlare. «La mia vita fino al 1945 è stata una fuga senza fine», racconta Eva, ebrea turca. «Dalla Germania sono scappata in Belgio, dal Belgio alla Francia, dalla Francia alla Svizzera e di nuovo alla Francia. Ho militato nella Resistenza, fabbricavo documenti falsi. Sono stata arrestata tre volte e due volte sono scappata. Ho perso la mia migliore amica perché un giorno abbiamo tirato a sorte, lei ha preso una strada, io un’altra, lei è stata catturata dalla Gestapo e spedita subito ad Auschwitz, io sono riuscita a rifugiarmi in un convento di suore cattoliche. Lei è morta, io sono sopravvissuta. Perché lei e non io? Continuo a chiedermelo anche ora. Le suore ci facevano pregare tanto, ma quando la Gestapo venne a cercarmi perfino in convento fecero vestire da suora anche me, mi fecero cantare con loro l’Ave Maria davanti all’altare e mi salvarono. Sapevo che la Gestapo sarebbe tornata, fuggii anche da lì e infine mi presero. Quando i russi ci hanno liberati, mi sono ricongiunta con il mio fidanzato: lui era stato a Birkenau, era sopravvissuto perfino in quell’inferno. Era sopravvissuto per rivedermi, questo lo aveva tenuto in vita e fatto resistere. Così mi disse. E più tardi, la notte prima di sposarci, annunciò: stanotte ti racconto tutto quello che mi è accaduto laggiù, poi non ne parlerò più, mai più. E così ha fatto, fino al giorno della sua morte».
David, ebreo ungherese, invece parla: «Quando i tedeschi occuparono il mio paese, la mia famiglia perse tutto e ci rifugiammo nel ghetto. Poi vennero a prenderci anche lì e ci portarono via. Io ero forte, fui spedito in un campo di lavoro vicino al fronte russo, da cui ci ritirammo un po’ per volta fino a Berlino. Mia madre finì ad Auschwitz e non ne è uscita viva. Ma avevo due fratelli gemelli più piccoli, un maschio e una femmina, e a loro si interessò il dottor Mengele per i suoi folli studi e i suoi esperimenti, perciò furono trattati un po’ meglio degli altri e sopravvissero. Li ho reincontrati dopo la guerra, mio fratello mi ha raccontato che divideva il letto con un nano, un nanetto del circo, anche lui cavia per la curiosità  di Mengele: era stato lui a salvarlo, portandogli sempre qualcosa extra da mangiare».
Anche Isaac, ebreo rumeno, era un ragazzo forte, si capisce pure adesso che ha più di ottant’anni. Lo rinchiusero in un campo di lavoro in Germania. «Al mattino una tazza di caffè acquoso, per pranzo un pezzo di pane e un’orrenda zuppa, ma io sbafavo tutto in una volta, senza mettere niente da parte, per il timore che la mia razione andasse perduta o rubata: dentro lo stomaco almeno era al sicuro. Non era un campo di sterminio con i forni per ridurci in cenere, ma se ti ammalavi o diminuivi il ritmo di lavoro, il giorno dopo sparivi e non tornavi più. Come ho fatto a resistere? Devi credere in te, mi dicevo. Sopravviverò, mi dicevo. Io sopravviverò! Lo gridavo silenziosamente a me stesso. Sopravviverò, sopravviverò. E sono sopravvissuto. Ma tanti altri cedevano alla fame, al freddo, al dolore, allo sconforto e dicevano, qui moriremo, se non oggi domani, e sono morti. Non bisogna mai arrendersi». Asciuga le lacrime. Si scusa per essersi commosso. Mi stringe il braccio, poi lo carezza, dolcemente. «Verso la fine della prigionia, i russi e gli americani bombardavano il campo tre volte al giorno, suonava l’allarme, i tedeschi scappavano come topi nei rifugi, e noi prigionieri uscivamo all’aperto, momentaneamente liberi, io guardavo il cielo, vedevo le sagome dei bombardieri, respiravo la libertà . Sopravviverò, mi dicevo, ebbene sono sopravvissuto. Nel ’48 sono arrivato dopo un’odissea in Palestina, ho combattuto nella guerra d’indipendenza per Israele, sono stato ferito, decorato al valore, ecco, vede qui il segno del proiettile? Da giovane non ero religioso, ma poi a Tel Aviv ho cominciato ad andare in sinagoga ogni sabato, e lo faccio ancora. Non perché io sia un credente, non ci vado per pregare, ci vado per onorare la nostra tradizione. Ci vado per ricordare, capisce cosa intendo?». 
Ci alziamo in piedi, ci abbracciamo, ci diciamo shalom. Ho preso un tè con i sopravvissuti della Shoah, le interviste sono finite, e adesso torno in ufficio a scrivere. Loro restano qui, ciascuno con i propri fantasmi.

Post Views: 181

Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2012/01/una-tazza-di-te-con-gli-ultimi/